Corriere della Sera, 6 marzo 2021
Alla Berlinale vince il film scandalo con mascherine
Premiando con l’Orso d’oro l’opera del regista Radu Jude dal titolo difficilmente traducibile (l’originale Babardeala cu bucluc sau porno balamuc vuol dire più o meno Una catena di sfortune o follie porno), la giuria della 71ª Berlinale ha dimostrato di non essere per niente codina, visto che il film inizia con alcuni minuti di scene hard che più esplicite non potrebbero.
Sono le privatissime effusioni di una coppia (sposata) che ama riprendersi mentre si lascia andare a pratiche e dialoghi degni di Moana Pozzi. Peccato che qualcuno, forse il tecnico cui hanno affidato il computer per una riparazione, abbia deciso di mettere in rete la loro performance. Con tutte le prevedibili conseguenze, visto che la donna (interpretata da Katia Pascariu) è l’apprezzata insegnante di una scuola bene di Bucarest.
Uno scandalo che naturalmente coinvolgerà anche i genitori degli alunni, preoccupati della moralità dei figli, ma che non esaurisce il film. Dopo una prima parte dove seguiamo la professoressa mentre cerca di soffocare lo scandalo e prima dell’inevitabile confronto-processo con i genitori, c’è una specie di lunga «parentesi» centrale dove simboli, fatti ed entità della società e della cultura rumena, da «Esercito» a «Biblioteca», da «Amore» a «Razzismo», da «Casa del popolo» a «Violenza sessuale», da «Soldi» a «Nudità» sono raccontati attraverso materiali d’archivio e riprese documentarie, con la forza dell’apologo e dell’ironia.
Un procedimento non nuovo per questo regista, attento alla Storia almeno quanto al Cinema, maestro nell’intrecciare finzione e riprese dal vero, a cui il Festival dei Popoli dedicherà, Covid permettendo, una retrospettiva ad aprile a Firenze, e che in questo modo svela il vero obiettivo del film: attaccare il falso moralismo che si è impadronito dei nuovi ricchi e che sembrano voler cancellare sotto l’apparenza del perbenismo i peccati e le ipocrisie del passato (quelli che per esempio il documentario Collective ha mostrato così bene).
In questo modo la parte finale, quando l’insegnante deve affrontare i genitori, a cui il regista ha imposto di tenere le mascherine anti-virus come per ribadire che il film è stato girato appena ieri, diventa la perfetta messa in scena dell’ipocrisia stigmatizzata nella parte centrale, a cui i tre finali – uno realistico, uno auspicabile, uno fanta-utopistico – impongono il suggello dell’ironia, su un Paese che sembra far ancora fatica a gestire la sua libertà.
Un Orso d’oro sorprendente ma condivisibile, assegnato da una giuria di sei ex vincitori di Berlino (tra cui il nostro Gianfranco Rosi) che però non riesce a cancellare la strana sensazione di aver preso parte a qualcosa che non sembra più un festival. Ognuno a casa propria, senza sala buia, senza pubblico, il cinema diventa qualcosa di strano, inafferrabile e irreale. Da dimenticare in fretta.