Corriere della Sera, 6 marzo 2021
Storia del Pd (14 anni di strappi)
«Dopo una discussione di diverse ore, il segretario ha deciso di mantenere l’orientamento espresso questa mattina e di rassegnare le dimissioni». E ancora: «Comprensibile l’amarezza del segretario per attacchi ingiustificati ingenerosi che si sono succeduti. Il Pd, in un momento così difficile, ha bisogno di un riferimento affidabile». Se non fosse stato per le mascherine e per gli smartphone che all’epoca non erano così diffusi, le due scene viste in sequenza sembrerebbero girate a distanza di qualche minuto. Stesso metro quadrato del centro di Roma, il gradino d’ingresso della sede del Pd al Nazareno; stesso orario del giorno e periodo dell’anno, e quindi stessa temperatura esterna e più o meno gli stessi vestiti; e lo stesso tono di voce, la stessa cadenza e soprattutto la stessa faccia, forse con qualche capello bianco in più ma neanche troppi, quella di Andrea Orlando, all’epoca portavoce e oggi vicesegretario Pd. Con la prima frase, 17 febbraio 2009, conferma le dimissioni di Walter Veltroni annunciate qualche ora prima; con la seconda frase, 4 marzo 2021, fa la stessa identica cosa con le dimissioni di Nicola Zingaretti.
In mezzo, la vicenda di un partito in preda a una «sindrome di Kronos», il dio che divorava i suoi figli. Con una variante: si ciba di segreterie, una dietro l’altra, dieci (reggenti e pluri-incarichi compresi) in quattordici anni, tutti maschi, una longevità di carica di sette-otto mesi là dove in altri contesti, tipo il centrodestra nella conformazione attuale, i leader sono stati meno della metà (Berlusconi, Fini, Bossi, Maroni, Salvini, Meloni) in più del doppio del tempo (dal 1994 ad oggi).
«Basta farsi del male. Mi dimetto per salvare il progetto a cui ho sempre creduto», annuncia Veltroni dopo una sconfitta del centrosinistra alle Regionali sarde del 2009, stremato dall’opera di logoramento interno che vedeva nell’area di Massimo D’Alema (Red, riformisti e democratici) il pacchetto di mischia più agguerrito. Nei mesi precedenti, dopo la sconfitta elettorale del 2008 condita però da un record di voti mai più replicato, il primo segretario Pd era finito nel mirino per un tentativo di «dialogo» intavolato con la maggioranza berlusconiana; paradosso dei paradossi, la web-tv degli oppositori interni, Red, trasmetteva al piano di sotto nel palazzo abitato da Berlusconi.
Quattro anni più tardi, 19 aprile 2013, a seicento metri in linea d’aria tramonta la leadership di Bersani. Centouno franchi tiratori hanno appena affossato la corsa di Prodi verso il Quirinale e il segretario, ch’era succeduto a Veltroni dopo una reggenza di Dario Franceschini stroncata dall’allora giovanissimo Renzi («Dopo il disastro, il vicedisastro»), guarda la platea dei parlamentari riunita al Teatro Capranica: «Uno su quattro ha tradito. Per me è inaccettabile». Fuori un altro.
Qualche anno dopo, Matteo Renzi leader del partito e premier, confermerà solo in minima parte quel «se perdo il referendum mi dimetto e non mi vedrete più» ribadito a più riprese prima dell’infausto dicembre 2016. Il «non mi vedrete più» verrà emendato proprio con una nuova candidatura alle primarie del Pd. Ma quando succede tutto questo, due dei segretari precedenti (Bersani ed Epifani) hanno cambiato partito e un altro (Veltroni) addirittura lavoro.
Correnti o non correnti, logoramenti o non logoramenti, è sempre stata una questione di tenuta, anche sentimentale. Nato col dubbio se essere un partito liquido come l’acqua o solido come una roccia, il Pd ha finito per sperimentare lo stato volatile della sua catena di comando. In fondo, nei suoi quattordici anni di vita, è stato un po’ come l’atipica location di un campionato mondiale di schiaffo del soldato, il gioco che andava di moda nelle caserme tra i soldati di leva. Col malcapitato di turno, bendato o di spalle, a tentare di individuare da dove arrivasse la manata. Fino a non poterne più.