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 2021  marzo 06 Sabato calendario

Il calcio sottovuoto, un anno senza tifosi

Da un anno il calcio si gioca a porte chiuse, assistiamo a partite improbabili e almeno a tre paradossi. Il primo è quello del ristorante. Decidete di pranzare fuori e vedete due locali: uno è affollato e vociante, l’altro semideserto e tranquillo. Andate nel primo. Vi trascinano l’istinto del branco e della ragione sottintesa: se tutti sono lì un motivo ci sarà, ma soprattutto ce ne saranno per evitare l’altro ristorante. Spiegano gli esperti di palinsesti: è rischioso trasmettere un evento senza o con poco pubblico. Chi sta a casa si domanderà: se non sono usciti per vederlo perché noi dovremmo stare qui a guardare? Sanremo insegna, ma anche un anno di calcio ( e di sport) senza spettatori. Ci si attendeva un record per assenza di alternative e fame arretrata, è successo l’opposto. Già di per sé la partita in tv è come una barzelletta che si capisce dopo. Occorre aspettare le riprese allargate e la segnalazione dei movimenti che l’occhio allenato in tribuna vede, ma la telecamera della diretta no. Togli la percezione, resta l’emozione. Va elevata e di molto per compensare l’effetto distanza. Funzionano le partite dentro o fuori. La Final Eight di Champions in una settimana ha dato più stimoli dei mezzi campionati, ma nessuno ha voluto rischiare i play off per non turbare le pretese contrattuali delle emittenti televisive, consegnando la generazione in transito alla noia e quella entrante alla stimolazione artificiale degli highlights.
Il secondo paradosso è quello dell’albero. Il dilemma di Berkeley è noto: «Se un albero cade nella foresta e nessuno lo sente, fa rumore? ». Quel che il vescovo irlandese voleva sostenere è che gli oggetti esistono solo in quanto percepiti. Dipende come. Se l’albero cade davanti a una telecamera e non al pubblico cambia qualcosa? L’albero non potrebbe rialzarsi, un giocatore, o undici, sì. Perché non lo fanno? Manca la stimolazione neurale della folla. Mancano le grandi rimonte. La stessa squadra può servire da esempio: la Lazio. Gioca il derby con la Roma e la schianta con due reti in 8 minuti. L’avversario non reagisce. È la partita più importante eppure si lascia scorrere il risultato addosso. Prova a farlo con il pubblico e vedrai. Il silenzio acconsente. Anche nei giorni successivi quel 3 a 0, che in altri tempi sarebbe stato un trofeo da sventolare per la città, va in archivio attutito dal coprifuoco. Poi la stessa Lazio si ripresenta in una serata di gala contro il Bayern e stavolta accade l’opposto: incassa due gol in 13 minuti. Ancora: nessuna reazione. La superiorità dell’avversario spiega il risultato, ma non la sua maturazione. I ripetuti sbagli dei difensori (Ibanez nel primo caso, Musacchio nel secondo) sono (anche) errori da stadio vuoto: manca il grido d’allarme lanciato da migliaia di voci, la successiva riprovazione dello stesso coro. Giocatori esperti (portieri come Sirigu) perseverano, ma la critica arriva affievolita. Questo aiuta i giovani, non deraglia i fuoriclasse (uno come Cristiano Ronaldo ha in testa la sua personale routine), ma incide sul “ceto medio”, abbassa il tasso di responsabilità e l’ansia da post- prestazione.
Il terzo paradosso è il dodicesimo uomo. Lo vedi quando non c’è. Magari non ti accorgi che è stato sostituito dal tredicesimo. Andiamo con ordine. Le classifiche delle prime venticinque giornate, con o senza pubblico, non mostrano una variazione omogenea. Soltanto tre stadi vuoti hanno un effetto clamoroso: due nel male e uno nel bene. I primi sono cattedrali: Anfield e il Camp Nou. Il Liverpool è arrivato alla quinta sconfitta casalinga consecutiva e non era mai accaduto in 128 anni di storia. Gli infortuni in difesa e il cortocircuito mentale di Klopp non bastano a spiegare il crollo. Pure a Barcellona, non è tanto che manchi Messi, è mancato il giudizio di Dio su Messi. Al Camp Nou il vero dio non è Messi, è il pubblico. Pollice alto o pollice verso? La stessa marea che favorì la remuntada con il Psg nel 2017 avrebbe subito il riflusso tre anni dopo? Non lo sapremo mai: ogni ipotesi è un gioco di possibilità, alcune più supportate. Come quella del vuoto benefico al Meazza, il teatro di Milano. Il dato è questo: 25 giornate giocate in due campionati, le prime a porte aperte, le seconde a porte chiuse. Il saldo del Milan è +17 punti, +6 posizioni e zona Champions. Quello dell’Inter è +2 punti, +2 posizioni ma quel che conta: testa della classifica con distacco di 6. Il loggione ammutolito sembra un fattore propulsivo: inevitabile pensare alla mancata sottolineatura delle fasi alterne di Handanovic o Romagnoli, al diverso rendimento di Calabria o Darmian, all’assenza di striscioni per l’Ibra canterino. Se il dodicesimo uomo è un fattore alterno, entra in campo comunque il tredicesimo: l’allenatore. La sua presenza è più determinante, sua la voce solista del controcanto. Chi più lo fa (Conte) più sembra ottenere. Si spiega anche con la compostezza di Fonseca l’incapacità della Roma di ottenere punti con le altre di testa.
Tra le cose che più mancano: l’insofferenza che si farebbe sentire al terzo esercizio di quell’ideologia retropassiva chiamata costruzione dal basso. All’esperimento populista il popolo risponderebbe con la parola che da sempre muove il mondo: avanti! Alla fine sarà stato ovunque un campionato unico, diverso, peggiore, (non per gli arbitri, che lo rimpiangeranno) ma non per questo da asterisco. Come ogni cosa di questa fase purché, passando, ci abbia insegnato qualcosa.