la Repubblica, 6 marzo 2021
Perché torna il fantasma dell’inflazione
Ètoccato a un comunista doc mettere a nudo le paure dei capitalisti della finanza. «Sono preoccupato che il problema delle bolle nei mercati stranieri un giorno scoppi» ha detto Guo Shuqing, capo dell’organismo che regola banche e assicurazioni cinesi e astro nascente nel firmamento politico di Pechino. Complimenti per il tempismo – proprio quando i mercati delle obbligazioni sono in tumulto – per l’ironia della “preoccupazione” proveniente da un Paese che ha alimentato la più grande bolla economica della storia, e per la malcelata malizia di un attacco preventivo che attribuisce all’Occidente le colpe di un futuro crac.
Ma Guo non è il solo a paventare la fine del lungo periodo di espansione di azioni e obbligazioni. I grandi della finanza già parlavano del pericolo-bolla in privato da mesi, ma nelle ultime settimane i movimenti repentini di molti mercati li hanno fatti uscire allo scoperto. Viste le valutazioni principesche delle Borse americane ed europee, le paure di un ritorno di fiamma dell’inflazione, che eroderebbe utili, rendimenti e salari, e l’incertezza economica causata dalla pandemia, è legittimo chiedersi se siamo vicini a uno schianto come il tonfo della Silicon Valley nel 2000 o la crisi finanziaria del 2008.
Talmente legittimo che a porre la domanda per primo è stato Ray Dalio, padre-padrone di Bridgewater Associates, il più grande hedge fund del mondo, in un blog su LinkedIn intitolato: “Siamo in una bolla azionaria?”. Col solipsismo proprio di chi gestisce 150 miliardi di dollari, Dalio ha interrogato se stesso (e si è risposto: “Non ancora”), ma sarebbe stato meglio chiedere ai banchieri centrali di Usa, Europa e Giappone. Perché, dal 2008, dipende tutto da loro. Ci sono tre aspetti fondamentali per capire se siamo in una bolla e sono tutti controllati dalle autorità monetarie.
Il primo sono le valutazioni altissime di parecchi settori del mercato – in particolare la tecnologia e altre industrie che hanno fatto bene durante la tragedia del virus (le aziende farmaceutiche, quelle delle compere online, la logistica ecc.). I numeri non mentono – soprattutto negli Usa – ma vanno abbinati a un altro dato: lo stimolo plurimiliardario pompato da banche centrali e governi nelle economie avanzate da più di un decennio. A Wall Street lo chiamano a wall of money, un muro di soldi pubblici che ha permesso ai mercati di spingere azioni (e obbligazioni) alle stelle.
Fino a quando queste condizioni di estrema liquidità persistono, è difficile pensare allo scoppio della bolla perché la passione per il rischio degli investitori sarà sostenuta dal denaro in circolazione. Ma che succederebbe se le banche centrali incominciassero a ritirare lo stimolo? È lo scenario-shock che ha portato a un’impennata nei rendimenti dei buoni del Tesoro Usa. Il pericolo è che una ripresa economica troppo veloce (grazie ai vaccini) porti al ritorno dell’inflazione, alla fine dell’era dei tassi bassi e al crollo del muro dei soldi di Wall Street. Qui la risposta delle banche centrali è stata chiara.
Jay Powell ha ribadito che un po’ d’inflazione non allarmerebbe la Federal Reserve mentre Christine Lagarde a Francoforte e Haruhiko Kuroda a Tokyo sono andati oltre, dicendo che potrebbero intervenire per spingere giù i tassi delle obbligazioni.
Il terzo aspetto è forse il più ovvio: se davvero la ripresa economica fosse più robusta del previsto – e riuscissimo a relegare il Covid ai libri di storia – a beneficiarne sarebbero gli utili delle aziende, i salari dei lavoratori e, per definizione, le sorti dei mercati azionari. Se Jay, Christine e Haruhiko (e Joe, Mario, Angela, Boris ecc.) continuano a sostenere l’economia mondiale con miliardi di aiuti, gli investitori non devono (ancora) preoccuparsi delle bolle. Devono magari preoccuparsi dell’inflazione futura creata da tutti questi soldi a basso prezzo, ma sarà un problema per la prossima generazione.
Guo, la Cassandra cinese, ha ragione quando dice che, prima o poi, i mercati crolleranno ma il “prima o poi” dipende da un’élite di banchieri e politici di cui la Cina non è parte. È forse la consapevolezza di quest’impotenza che sta facendo innervosire Pechino.