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 2021  marzo 06 Sabato calendario

Biografia di Adriano Prosperi raccontata da lui stesso

A leggere il nuovo libro di Adriano Prosperi (Un tempo senza storia, edito da Einaudi) verrebbe da pensare che il mestiere dello storico è in via di estinzione. Se il presente, con tutta la sua forza invasiva, ha preso il posto del passato, nasce il dubbio che manchi la materia prima su cui riflettere. E qui, avanza inesorabile un cupo pessimismo, quello che sembra tormentare il pensiero di uno dei massimi studiosi della nostra storia moderna. Sospetto sia questo lo stato d’animo che ha spinto Prosperi a riflettere sul perché la nostra società si è dedicata in questi anni alla distruzione del passato.
Dopo essersi occupato di alcuni grandi temi della modernità, dal mondo religioso a quello contadino, scrive un pamphlet in cui mette in guardia dai rischi che corre la storia come sapere. Di che cosa dovremmo preoccuparci?
«Dell’indifferenza collettiva che sta crescendo nei riguardi del passato. La questione mi si è posta con chiarezza qualche anno fa, davanti alle ricorrenti tragedie del Mediterraneo. Quella situazione di disperati respinti o lasciati alla deriva rilanciava l’interrogativo "se questo è un uomo", costringendomi a chiedere se anche quei drammi umanitari fossero finiti in una sorta di oblio collettivo».
Intende dire che l’indifferenza con cui a volte assistiamo a certi eventi drammatici, nasce dallo strappo della nostra memoria?
«Il grande semiologo Jurij Lotman riteneva che l’intera storia intellettuale dell’umanità si potesse considerare una lotta per la memoria. E che la distruzione di una cultura si manifestasse come annientamento della memoria e dei relativi testi che la sostengono. La distruzione del passato, su cui richiamò l’attenzione anche Eric Hobsbawm, non è un esercizio di stile ma la constatazione che siamo in presenza di una vera e propria malattia sociale».
Ogni generazione è stata segnata soprattutto dai propri limiti. Come giudica il destino di quella odierna?
«Non so cosa cercheranno o potranno studiare i ventenni di oggi, alle prese con una crisi che toglie loro prospettive di lavoro, dignità umana e speranze di futuro. Viviamo dentro una pandemia che prima o poi finirà. Ci troveremo probabilmente davanti a un paesaggio di rovine e a una ripresa massiccia dell’emigrazione italiana. Ciò che oggi ci rifiutiamo di vedere nella storia drammatica di altri popoli, potrebbe domani accadere a noi».
Quanto è importante per un popolo condividere la memoria storica?
«Veramente io non credo affatto alla necessità della memoria storica condivisa. Essa indottrina nel nome di un potere che non ama la conoscenza storica ma esalta la propaganda. Non si può per amor di patria – come credeva Renan – cancellare o stravolgere le vicende storiche».
Ma esiste ancora un’eredità orale della nostra storia?
«La trasmissione dei ricordi e di esperienze da un’età all’altra, dai più vecchi ai più giovani, si è quasi del tutto interrotta. Non c’è più la voce narrante degli anziani. Al suo posto è subentrato un consumo personale di racconti, immagini, informazioni che arrivano direttamente dai mezzi di comunicazione di massa. Su cui non si esercita nessun controllo».
È un compito che spetterebbe alla scuola.
«Ma non solo ad essa. Sono venuti meno una serie di corpi intermedi – il sindacato, il partito politico, la fabbrica – un tempo luoghi di apprendimento e di relazioni di scambio, dove si rafforzava la formazione di culture, la trasmissione di saperi e di memorie. Al loro posto è subentrato il contatto individualizzato prodotto dal cellulare e dalla Rete, sganciato dai luoghi della vita quotidiana. Oggi la memoria si compone perlopiù di pillole anonime offerte da Internet».
Non solo gli individui tendono a cancellare. Anche la storia è un congegno che "uccide" parte della memoria.
«Ho sempre pensato che accanto all’attività del ricordare ci fosse, in relazione alla memoria e alla storia, anche quella del dimenticare. In un certo senso la storia si può definire una macchina per dimenticare».
Non la turba quell’immenso mondo della "dimenticanza", dove ci sono fatti che non vedranno più la luce, persone totalmente cancellate, vicende di cui abbiamo perso l’origine e il significato, non la turba insomma la storia come "mattatoio" del passato?
«Sinceramente no. È un processo fisiologico che riguarda ogni realtà vivente, dalle idee alle persone, e che mi affascina. Anche perché quello che sparisce non si perde del tutto. Ci sono età, diceva Machiavelli, che paiono fatte per far rinascere le cose morte. In questa prospettiva ci si abitua a vedere la nostra vicenda personale e a misurarne i limiti, ma anche a guardare a follie e contraddizioni del mondo umano che scatenano in tutti noi tante passioni.
Come diceva Dante: "L’aiuola che ci fa tanto feroci"».
Dal ripetersi della ferocia, diciamo pure della violenza e delle guerre, non pare che la storia sia stata per noi maestra di vita.
«È complicato apprendere dagli errori del passato perché la storia non tende a ripetersi. La violenza dell’oggi non è la stessa del passato e diversi sono gli sfruttatori e le vittime. Però ricordare e raccontare lo sfruttamento bestiale del passato, o cosa è stata la dolorosissima emigrazione italiana, non cancellerà le sofferenze e le ingiustizie, ma può aiutare ad aprire gli occhi sul presente».
Come storico dà l’impressione di lasciarsi coinvolgere dalla ricerca.
«Spero che non condizioni un certo bisogno di obiettività».
Eppure ci sono sofferenze che ci arrivano come un’eco dal passato e motivano il lavoro dello storico, ne indicano la direzione. La ricerca sul passato l’ha mai coinvolta personalmente?
«Prima della ricerca storica c’è la biografia personale, qualcosa conterà pure. Sono nato nel 1939 e ho vissuto gli anni di guerra e di occupazione tedesca in una zona teatro di stragi, bombardamenti aerei, uomini sequestrati e spariti. Mio padre fu preso da una banda di SS ubriaca, ne uscì vivo quando non lo si sperava più. Il primo giorno della Liberazione cominciò con un cannone inglese che colpì, sbagliando la direzione, non i franchi tiratori tedeschi ma proprio casa mia. Tutto questo è restato inciso nella mia memoria».
Qualche anno fa lei ha scritto un libro sul mondo contadino.
«Lì vivono le mie radici».
Per lei è stato come pagare un debito?
«Non direi. Volevo in realtà reagire a un fatto che mi aveva colpito. E cioè che la durezza che provano gli immigrati nel lavoro nei campi, è la stessa che i contadini hanno subito nella prima metà dello scorso secolo e anche prima. Gli eredi di questi ultimi, diventati ormai classe agiata, hanno sfruttato i lavoratori senza diritti, ancor più dei padroni di allora. Anche questo è un caso di come e perché si dimentica la storia».
Che cosa resta di quel mondo contadino?
«La trasformazione delle grandi case coloniche, che ospitavano famiglie numerose, in agriturismi, con la piscina ricavata dal letamaio. Questo resta, grazie ai contributi statali».
Quel mondo rispondeva ai dettami del cattolicesimo. Lei ha avuto un’educazione cattolica?
«Cattolicissima, da ragazzo pensavo di fare il missionario».
Che è un po’ come fare lo storico.
«Non ci avevo mai pensato».
Come storico ha affrontato diversi temi di natura religiosa. Quell’educazione l’ha agevolata?
«Diciamo che mi ha costretto a fare i conti con le radici religiose di questo paese. Ho cominciato subito studiando un vescovo tridentino e l’età della Controriforma, per capire come e perché l’Italia era rimasta unita da un potere religioso più forte di ogni potere politico».
Cosa le è rimasto della religione?
«La dimensione dell’ignoto e il fondo inesplicabile della vita e della morte, in una parola del sacro, che la religione istituzionale sa esorcizzare e tenere a bada meglio dell’ateismo».
È per questo che ha scelto di occuparsi dell’istituto dell’inquisizione?
«La verità è che ci sono arrivato studiando la confessione, un rito o sacramento di cui Lutero fu un difensore appassionato e che Roma riuscì a far diventare un sistema di delazione diffusa e di turpi intrecci sessuali».
Tra gli effetti più evidenti dell’inquisizione c’è l’intreccio tra delitto, perdono e castigo.
«È un teatro nato dalla fede nell’aldilà, con un giudice minaccioso all’ingresso. Fu così che la religione cristiana consolidò il potere terreno garantendo la durata della pena capitale, trasformata in spettacolo, dove un’innocente accusata di stregoneria, veniva convinta a dichiararsi colpevole con la semplice minaccia che il confessore non l’avrebbe assolta».
In che misura le sue ricerche sul rapporto tra potere giudiziario e figure ereticali, tengono conto degli studi di Delio Cantimori?
«Moltissimo, ovviamente. È stato uno dei punti di riferimento».
Altri maestri?
«Armando Saitta, Paolo Prodi, Carlo Ginzburg, come persone e come autori. Aggiungerei i grandi narratori dell’Otto e Novecento, russi, francesi, inglesi».
A proposito di letteratura che rapporto c’è tra storia e romanzo?
«Alphonse Daudet scrisse che il romanzo è la storia degli uomini, e la storia è il romanzo dei Re. Oggi convergono nel mettere al centro le persone, ma divergono nel ricorso all’invenzione».
Sono finite le grandi narrazioni?
«Se riferite ai sistemi ideologici direi di sì, ma forse c’è ancora posto per i grandi romanzi».
Che cosa trova, lei che è uno storico, in autori come Nietzsche e Benjamin?
«In Nietzsche la grandezza del filologo e il genio misto di follia, una riscoperta della mia generazione dopo i disastri della sorella nazista. Quanto a Benjamin è scrittore e pensatore grandissimo, testimone e vittima della lacerazione del rapporto storico tra ebraismo e cultura tedesca».
Yuval Noah Harari, in tempi che precedono la pandemia, ha parlato della fine delle carestie e delle epidemie.
«Era convinto che l’umanità stesse vivendo un trionfale presente e che si era lasciata alle spalle tutte le disgrazie dalle quali siamo afflitti. Non ho mai capito il senso di bilanci troppo trionfali. Un fatto è certo: dopo il Covid assisteremo a un mutamento profondo».
Che cosa può dirci lo storico?
«Penso che la storia che si racconta debba ormai tenere conto della "storia naturale", cioè della vita naturale della terra e delle altre specie, inclusi i virus, i terremoti, il clima. Senza di che, l’illusione di essere i figli prediletti di Dio e i padroni di tutto ci condurrà alla rovina».
Quando dice "mutamento profondo" a cosa pensa?
«Che il ritorno alla normalità sarà tutto fuorché normale. Mi auguro di essere smentito dalla realtà».
E per riferirsi all’Italia, quanto saremo anormali?
«Siamo anormali da sempre e di questo non mi preoccuperei. L’Italia è un paese bellissimo per natura e arte, malato nelle istituzioni, nell’assenza di regole, nell’ingiustizia di un sistema fiscale fondato sull’evasione, nella mancanza di unità nazionale, dove i dettami della Costituzione restano buone intenzioni mai prese sul serio. Un paese governato nell’ultima fase con dosi omeopatiche di paura e un po’ di "ristori"».
Non la sento incoraggiante.
«Siamo un paese in piena decadenza ciò non toglie che la mancanza in Italia di quello che Leopardi chiamava il "tono" nazionale, lascia aperta la porta a creatività e generosità di singoli e di gruppi che abbiamo sperimentato anche questa volta. Ma ormai solo andandosene via, una gioventù sempre più ridotta trova lavoro e possibilità di inventarsi una vita. È la nuova migrazione di cui parlavo prima. Perciò la domanda è: riuscirà l’Europa a diventare una vera confederazione di Stati o resterà solo una multiforme accozzaglia di nanopotenze tra di loro conflittuali? Mi dispiace ma non ho una risposta sotto mano».