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 2021  marzo 06 Sabato calendario

Salvatore Accardo ricorda Astor Piazzolla

C’è un’anima tanguera che brucia dentro il violino Guarneri del Gesù del Settecento suonato da Salvatore Accardo. Nel repertorio del famoso violinista, nato a Torino nel 1941 e prossimo ai festeggiamenti per i suoi 80 anni, non esiste solo Paganini, di cui già all’età di 13 anni eseguì per la prima volta iCapricci, oppure Vivaldi, Debussy, Ravel e Bach, dei quali è un interprete eccelso. Accardo è uno dei musicisti più titolati a dare corpo e suono con il violino alla poetica e alle note di Astor Piazzolla, di cui fu ottimo amico e collaboratore. L’11 marzo ricorre il centenario della nascita del grande compositore argentino. Il rapporto molto stretto che si creò tra i due artisti è testimoniato da alcuni dischi imperdibili con musiche di Piazzolla eseguite da Accardo con l’Orchestra da Camera Italiana, come Le Grand Tango o la registrazione del concerto per la donazione alla Città di Cremona del violino Stradivari-Vesuvio del 1727. Per il centenario la Fundación Astor Piazzolla ha voluto un suo ricordo scritto per un libro che raccoglie gli interventi di Richard Galliano, Milva e del figlio Daniel H. Piazzolla.
Maestro Accardo, a quando risale il suo innamoramento per la musica di Piazzolla?
«Credo sinceramente di esserne rimasto folgorato quando ebbi l’occasione di ascoltarlo dal vivo nel 1969. Avevo già sentito i suoi dischi, che mi avevano colpito in un modo particolare, ma la scintilla scattò quando, di passaggio a Buenos Aires, mi portarono a un suo concerto.
Avevo degli amici in città che lo conoscevano e chiesi loro di accompagnarmi e di presentarmi a Piazzolla. Ricordo quella sera con forte emozione. Mi trovavo nella cattedrale del tango. al Michelangelo. Posto mitico nel barrio di San Telmo, dove Piazzolla si esibiva spesso. Fu una folgorazione . Per la grandezza di questo uomo dal punto di vista musicale, soprattutto per il ritmo, per la melodia. capii che avevo di fronte un musicista meraviglioso, anche umanamente».
Tra voi nacque in seguito una grande amicizia.
«Sì, ci fu sintonia sin dal primo incontro. Quella volta a Buenos Aires, mi invitò a casa sua per seguire in tv lo sbarco sulla Luna. Chiaramente ho ricordi indelebili di quei momenti trascorsi insieme. Anche perché nel congedarmi da lui, mi chiese di aspettare un attimo e andò a prendere un foglio di cui mi fece dono, con la massima semplicità. Era una composizione che aveva scritto per me. Una milonga in Re. Mi affidò la partitura come una cosa cara e io ne fui onorato oltre che meravigliato. Il giorno seguente avevo un concerto allo storico Teatro Colón a Buenos Aires, insieme a Bruno Canino.
Decidemmo insieme di suonare quella sera la milonga, nei bis, ma non dicemmo nulla prima a Piazzolla. Lui era presente in sala e quando il pubblico reclamò i bis noi suonammo la sua composizione senza presentarla. Ci fu un boato perché tutti riconobbero subito l’impronta della sua musica, bastarono due battute. Piazzolla venne poi a salutarci in camerino e, tra un abbraccio e l’altro, pianse per la commozione. Diventammo grandi amici e tra noi c’è sempre stata simpatia ed ammirazione reciproca».
Nella sua carriera che resta saldamente ancorata alla musica colta, è mai stato tentato di spingersi in territori come il pop?
«Qualcuno me lo ha proposto in passato, ma non ho mai accettato.
Banalmente non mi ritengo capace di suonare altri generi. L’unica eccezione è la musica di Piazzolla, con cui si è creata una relazione speciale. Con lui e con i suoi musicisti. Primo tra tutti il violinista Antonio Agri, il più bel suono di violino che abbia mai sentito».
Come il Maestro Muti, anche lei quest’anno compie 80 anni. A Torino e a Milano ha vissuto momenti significativi della sua carriera. Che ricordi ha?
«A Torino sono nato ma mi sono presto spostato altrove. Sono tornato per diventare musicista, un musicista vero intendo. Mi riferisco ad anni come il 1959 e il 1960, all’amicizia con il pianista Ludovico Lessona, poi tragicamente scomparso negli anni 70. In quegli anni suonavamo tanta musica da camera insieme e a Moncalieri c’era Arturo Benedetti Michelangeli che teneva i suoi corsi di perfezionamento in un castello affascinante. È stato un periodo fondamentale, di grande lavoro sul repertorio di Beethoven, Debussy, Ravel, Schubert. Milano invece la colloco principalmente negli anni 70, altro formidabile periodo per la creatività musicale. La città era al suo apice. Ricordo che ci inventammo con Claudio Abbado, Maurizio Pollini e il Quartetto Italiano, i concerti al Teatro alla Scala per i lavoratori e per gli studenti. Si fecero davvero cose importanti all’epoca».
In questo tempo di silenzio per teatri d’opera e sale da concerto, che cosa le manca di più?
«Suonare per il pubblico certamente, perché chi ascolta è parte dell’esecuzione, in un ricambio costante di energie corrisposte, ma di più soffro la difficoltà del contatto con i miei allievi. Il suono è elemento essenziale. Non c’è iPad o connessione internet che possa sostituire l’ascolto e il confronto in presenza».