Robinson, 6 marzo 2021
Algoritmi e tribunali
Abbiamo imparato quel che l’avvento del digitale fa alla musica: meravigliosa e facile diffusione universale ma anche rapina dei diritti d’autore; quel che fa all’informazione: idem; quel che fa all’industria con la robotica: splendore dell’automazione ma anche cancellazione di lavoro umano. E quel che fa alla sfera pubblica: una signora americana, per esempio, convinta che le stragi nelle scuole siano opera della lobby contro le armi e che gli incendi in California li appicchino i Rothschild, è stata eletta al Congresso, grazie ai social. È il trionfo delle bugie, definito anche, elegantemente, “caos epistemico”.
Con l’arrivo della” giustizia digitale”, quale tipo di caos ci possiamo aspettare? Domanda da farsi con la buona disposizione di chi spera, davvero, che si possano così accelerare i processi e sbloccare l’ingorgo dei tribunali. È una svolta indispensabile, dovunque, ma con rischi da ponderare.Due autori francesi, Antoine Garapon, magistrato, e Jean Lassègue, filosofo, forti della ispirazione culturale di Robert Badinter ( il ministro della Giustizia che abolì la pena di morte nel suo paese nel 1981), cui è dedicato il libro, e dell’ermeneutica di Paul Ricoeur, affrontano il problema in un importante volume filosofico-giuridico e con una grande ampiezza di analisi.
La rivoluzione «grafica», così definiscono la scrittura digitale che ha cambiato il mondo, sta entrando in azione sul diritto, che è fatto, trasmesso, interpretato e conservato attraverso testi, e si presta perciò a essere interamente ingoiato dalle macchine con il loro linguaggio binario e portato nella dimensione della omogeneità, riproducibilità istantanea, lavorazione con algoritmi. Le macchine possono aggregare statistiche, ricorrenze di situazioni, parole, reati, procedure, sentenze, correlazioni, fenomeni sociali. E possono scoprire regolarità e proporre previsioni per il” futuro”. Parola pesante, questa, perché come si sa in filosofia ( e in teologia), la conoscenza del futuro si scontra frontalmente con la libertà e responsabilità umana, il” libero” o il” servo arbitrio”, che tante guerre non solo teoriche hanno scatenato.
La giustizia non si accorda bene con il determinismo, non accetta gli automatismi, ha bisogno di passare attraverso un iter” espressivo” non” performativo": le arringhe, la presenza fisica di imputati, parenti e pubblico, i necessari rituali. Non gradisce una disintermediazione, che cancelli i contorni semantici delle vicende umane, emozioni, errori, richieste e proteste. Non c’è niente di più” analogico” e” offline” della giustizia per come viene esercitata realmente.
Che cosa, dunque, può succedere con l’avvento della “legaltech”? Si affacciano nuove start- up ad opera di giovani imprenditori, matematici, geeks che trovano nella giustizia un campo aperto alla coltivazione di nuove attività. Ce ne sono già di potenti negli Stati Uniti che offrono la scelta dell’avvocato più adatto, che inghiottono tutti gli elementi di una causa e propongono gli esiti prevedibili in giudizio. Mercato vasto e costi bassi faranno apparire antiquate le professioni legali. Visto come è andata con Apple, Facebook, Amazon e gli altri, sulla scena appariranno presto i vincitori di questo nuovo enorme business, i disintermediatori che manderanno in pensione i gloriosi notai, il servizio Uber che recapita sentenze e spiana i conflitti contrattuali o le cause per plagio. Si chiameranno Odr (online dispute resolution) o Dao (Decentralized autonomous organizations), i software che porteranno anche la tecnologia blockchain nella giustizia ( quella dei bitcoin, che vetrifica la memoria in eterno), accentuando la rigidità deterministica dei risultati. Sostituiranno quel” terzo” che è rappresentato dal giudice? Certo sforneranno arbitrati a basso costo, con la velocità di una ricerca su Google.
Gioie ma anche dolori: dove il digitale sta entrando in funzione, per esempio in Canada, se ne vedono i primi effetti: in un caso in cui l’analisi della tipologia dell’accusato calcolava una altissima recidività ha prodotto una sentenza pesante e sproporzionata. Con la profilazione algoritmica delle persone la giustizia predittiva dà un peso esorbitante al passato, si comporta come un magistrato fazioso e conservatore. E non conosce il” candore del giudice”, che deve ammettere la possibilità che gli esseri umani si correggano. D’altra parte, un contro- software legaltech individuerà in un attimo anche un giudice che presenti delle costanti sospette. Si annuncia per la giustizia un nuovo campo di tensioni. E non è detto che sia un male. Se la spinta verso il determinismo sarà troppo forte, sarà necessario ricordare – concludono Garapon e Lassègue – che la giustizia consiste proprio nell’evitarlo, in nome del diritto, dell’aspirazione alla libertà. E della convivenza con la fallibilità umana.