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 2021  marzo 06 Sabato calendario

Riscoprire David Leavitt

Il tempo è galantuomo: ci sono testi letterari che durano, attraversando indenni le vicissitudini della cronaca e del gusto. Della moda americana dei minimalisti (anni Ottanta del secolo scorso) sono rimasti i due scrittori più dotati, e molto diversi tra loro: David Leavitt e Bret Easton Ellis. L’opera prima di Leavitt, Ballo di famiglia, riesce ora in una nuova traduzione presso la Sem, Società Editrice Milanese; con un’introduzione dell’autore (che ricorda affettuosamente il lungo soggiorno in Italia, dove aveva casa e dove ha scritto alcuni racconti del libro) e un’aggiunta datata 1986, uno straziante incontro onirico con la madre morta da poco. Leavitt, che ora ha quasi sessant’anni, si è poi cimentato in romanzi di tutto rispetto (l’ultimo, Il decoro, uscito l’anno scorso sempre da Sem) ma la misura del racconto resta il suo primo amore, la forma che lo ha rivelato a se stesso.
A leggerli ora, questi racconti composti tra il 1980 e il 1984, quando Leavitt aveva tra i diciannove e i ventitré anni, meravigliano per il talento già pienamente espresso. Un ragazzo troppo maturo per la sua età, che guarda con scetticismo, pena e ironia un mondo di patina brillante e radici malate. Eppure, nell’introduzione del sessantenne, quel mondo è rievocato con nostalgia: c’era «un fondo di normalità su cui poter contare», le cose accadevano con un ritmo comprensibile e non col frastornante incalzarsi del post ‘89; si poteva trovare «un equilibrio tra gli aspetti privati e pubblici della scrittura». L’introduzione è scritta il 13 gennaio 2021, una settimana dopo l’assalto a Capitol Hill, e a scriverla è un Leavitt forse un po’ pentito di aver parlato, nel Decoro, del fascismo latente in chi si opponeva a Trump demonizzandolo: ora nemmeno lui gli fa sconti («un certo spregevole ciarlatano con una brutta pettinatura è riuscito con metodi truffaldini a piazzarsi nello Studio Ovale»).
Ma queste sono appunto le oscillazioni della cronaca a cui nemmeno gli ottimi scrittori sanno sottrarsi; il libro del 1984 è qui davanti a noi, nella sua indifesa bellezza. Questo libro non sapeva allora di star ritraendo una parodia di Belle Epoque, prima che la Storia si rimettesse a correre. L’aria del tempo la si avverte già nell’immaginazione visiva: ci sono le piscine di David Hockney, l’iperrealismo di Richard Estes («il sole rimbalza sulla vetrina da cui la sta osservando; il riflesso del suo volto è allineato con quello di lei»), su fino al vecchio Hopper («attraverso la parete di vetro, l’interno del negozio illuminato a giorno risplendeva con le sue file e file di barattoli e scatole»). Il ventenne ha già un orecchio sopraffino nel cogliere in un’unica frase i tratti di una società affluente e consumista («una coppia che vive a circa dieci metri da lì, ma è comunque venuta in macchina»; «sto cercando di diventare il tipo di persona che può vivere in una casa come questa»); ma il benessere viene anche percepito come una prigione: «avevamo abbastanza soldi per poterci finalmente permettere il meglio, e questo significava che non ci sarebbero rimasti altri posti dove andare». Sono gli anni che da noi si definivano «di edonismo reaganiano», noi che eravamo reduci dagli anni di piombo. Questi ragazzi che parlavano di madri col cancro, di fare o non fare il proprio coming out, del divorzio di papà dalla sua seconda moglie, di amiche bruttine devote a coppie gay, ci parevano fortunati e fatui inseguitori di minuzie: un giorno Franco Fortini ridacchiando li chiamò «i coniglietti dei sentimenti». Ci fu qualche tentativo di imitarli ma eravamo troppo incazzati e marxisti.
In Leavitt c’era già il basso continuo di un dolore che incrinava la festa, ultimo erede di una tradizione che partiva da Cechov e Schnitzler, passando da Bergman per arrivare a Carver: nei suoi racconti basta un incidente qualunque, una torta venuta male, per far precipitare il non detto – la crisi esplode violenta, ci sono grida e pianti presto riassorbiti in un sospiro di rassegnazione («non ha altro nella vita, se non paragonare il dolore degli altri al suo»). Questo ragazzo che guarda vivere gli adulti di un ceto medio intelligente ma noioso, tutti con mestieri o hobby glamour (case editrici, agenzie pubblicitarie, corsi di cinema o di ceramica), tutti infallibilmente nevrotici («si sono conosciuti alla terapia di gruppo contro la depressione»), questo ragazzo che fa dei conti già piuttosto facili con la propria diversità sessuale (le madri dei giovani gay diventano attiviste Lgbt) ha antenne sensibili per la psicologia, sa entrare nella testa dei suoi personaggi; soprattutto le donne sono bravissime nell’interpretare le intenzioni sotto le buone maniere («sembra che si siano perdonati, altrimenti perché mai penserebbero a lei ?») – sono donne infelici, sole, si direbbe che Leavitt faccia fatica ad ammettere una donna nella propria scrittura se non è in qualche misura menomata (a questo anche servono i tumori) o dipendente. La capacità di introspezione dei personaggi intacca gli stereotipi sentimentali («ripensa all’anno in cui sua madre stava morendo come al più felice della sua vita»).
Quella di Leavitt è la prima generazione di scrittori americani che nella quasi totalità esce dalle scuole di scrittura e lui ne è un discepolo perfetto: tagli accattivanti, sobrietà, show don’t tell – lo stile si fa contenuto perché le parole ellittiche danno già un giudizio sulle relazioni («tutto ciò che li separa è un piatto di formaggio»). Ma vale la pena di riflettere su un consiglio che (testimonia Leavitt nell’introduzione) gli dava il suo maestro ed editor Gordon Lish: «comincia con qualcosa di sgradevole e finisci con qualcosa di sgradevole». Mi chiedo quale editor, oggi, sarebbe disposto a dare un simile consiglio; ora che sono tutti così attenti al messaggio da «veicolare», ora che l’esterno è così platealmente sgradevole da richiedere quasi a forza parole di lotta e di speranza.