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 2021  marzo 06 Sabato calendario

Su "Pianura" di Marco Belpoliti

Il nuovo libro di Marco Belpoliti, Pianura, ci trasporta in quella sensazione sperimentata quando attraversiamo la Pianura Padana non tanto utilizzando i treni ad Alta Velocità, quanto i treni regionali in cui sentiamo ancora le stagioni: gli spifferi gelidi in inverno o, in estate, l’aria afosa che entra dal finestrino aperto e sbatacchia la tenda contro un sedile vuoto. Basta deviare rispetto al percorso abituale per essere accolti in un’altra dimensione spazio-tempo. E allora Belpoliti va a ritroso, verso la propria famiglia di origine e le persone conosciute durante la giovinezza, persone che hanno contribuito alla sua formazione: fra queste, Piero Camporesi, Gianni Celati, Luigi Ghirri. Per una questione biografica, Belpoliti privilegia coloro che hanno vissuto o lavorato soprattutto tra Reggio Emilia e la Foce del Po. Il libro è suddiviso in capitoli, ogni capitolo ha nel titolo una delle quattro stagioni e il nome di un luogo o di un elemento caratterizzante.
Il secondo capitolo, per esempio, è intitolato «Autunno - Bencini Comet», ovvero la marca della prima macchina fotografica utilizzata dal giovanissimo Luigi Ghirri, che in seguito, ricorda Belpoliti, incentrerà la sua arte «sul margine tra città e campagna», laddove anche ciò che è slabbrato, abbandonato, intaccato dall’incuria, appare invece «annodato, tutto si rimanda, ed è una strana sensazione d’appartenenza a qualcosa che c’era prima di noi e ci sarà dopo di noi». In pianura il tempo sembra agire in modo ancora più inesorabile, in questi luoghi «tutto invecchia rapidamente». Ma non è colpa dell’umidità che erode le mura, non è colpa della nebbia, peraltro sempre più rara, e nemmeno di quel baluginare travolgente che porta via con sé parole e civiltà, il «tremolio che rende ogni cosa instabile». In pianura «lo smisurato contiene dentro di sé la propria misura». E quindi anche la misura della propria fine. Questo capita in quasi tutta la Valpadana: appaiono sullo sfondo Alpi, Prealpi o colline emiliane, che cingono lo sguardo e aumentano la sensazione di essere accolti, o rinchiusi. Milioni di persone ogni giorno vivono e attraversano l’enorme macchia verde della cartina appesa ai muri delle scuole italiane.
La carta geografica. I luoghi. Le persone. Belpoliti osserva gli amici, tratteggia come se stesse pennellando l’incedere di Celati, «eterno ragazzo» anche quando era cinquantenne: «dinoccolato, a tratti sembrava barcollare, ma non cadeva mai». Celati, «l’incarnazione visibile della nostra giovinezza, quella che abbiamo vissuto», oppure «quella che abbiamo immaginato di vivere».
Il libro è attraversato da una sottile malinconia alla quale è dedicato un capitolo: «Inverno - Magon». Magon, in dialetto reggiano, come si intuisce, è il magone, che è anche il ventriglio del pollo. El magùn, ammazza che magone che c’ho, avrebbe detto Alberto Sordi nel ruolo del vigile urbano romano, a Milano. Il magon emiliano, scrive Belpoliti, «questa speciale forma di dispiacere», mi è sempre parso qualcosa a metà tra un sottofondo dolente e la tristezza, una tristezza sfumata, quasi preventiva, ciò che protegge dal vero dolore e che, tuttavia, è già dolore. Non a caso molto spesso, nella letteratura di autori emiliani, il magon si unisce al comico, ma il comico non smorza il magon, lo accentua: il comico derivante dalla gioiosa e dolorosa postura stralunata con la quale questi personaggi emiliani attraversano il mondo.
Chi attraversa letteralmente il mondo per giungere ai margini della Pianura Padana è l’animale protagonista del capitolo intitolato «Autunno - Anguille a Comacchio». In quel punto la pianura non ha più montagne o colline a delimitarne i contorni, ma il mare.
«Luogo di impasti» è il Delta del Po. «Lì la pianura va a morire di estenuazione dentro il mare», scrive Belpoliti. Proprio così. Perfino chi attraversa seduto in automobile la pianura per raggiungere il delta percepisce la sensazione di approdo. Chissà cosa provano le anguille, che nascono a migliaia di chilometri di distanza, nel Mar dei Sargassi, tra le Antille e le Azzorre; ancora larve, si lasciano trasportare dalle correnti, nuotano, crescono, attraversano una parte di Atlantico e di Mediterraneo. Dopo tre anni di viaggio, ogni anguilla «da pesce d’acqua salata si trasforma in creatura d’acqua dolce, ed è così che la conosciamo noi», scrive Belpoliti. Animale solitario, striscia, sembra più un rettile che un pesce. Di solito l’anguilla muore, pescata, in questo luogo di confine. Eppure qualche esemplare, sempre di meno in realtà, riesce a divincolarsi nel fango, per fuggire. E chi sopravvive, non di meno di chi soccombe all’uomo, dobbiamo guardarlo come il frutto che unisce la pianura al mare. «Puoi tu / non crederla sorella?», scrive Montale, nella chiusura de L’anguilla. Dal fango che è il nostro stesso fango, l’anguilla misteriosa sguscia via, ritorna al punto in cui è nata, depone le uova e muore: un ciclo che, per i nuovi nati, si concluderà tre anni dopo, ai margini di una pianura lontanissima, tra noi.