Tuttolibri, 6 marzo 2021
Il cowboy maestro di Stephen King
Avete presente Midsommar. Il villaggio dei dannati, pellicola del 2019 scritta e diretta da uno dei nuovi astri dell’horror Ari Aster? E lo strepitoso racconto di Stephen King I figli del grano (contenuto nella raccolta A volte ritornano) che ha alimentato un franchise cinematografico lungo un trentennio? Oppure The Wicker Man, seminale capolavoro in celluloide firmato dal regista britannico Robin Hardy di recente riproposto in un - invero grossolano - remake con Nicolas Cage? E che dire del film The Village (2004) di M. Night Shyamalan? Ebbene tutte queste opere, oltre allo sfondo rurale, hanno in comune il fatto che probabilmente non avrebbero visto la luce così come le conosciamo senza il riverbero del pionieristico lavoro di Thomas Tryon: talentuoso e poliedrico artista americano che, tra i Settanta e i primi dei Novanta dello scorso centennio, seppe con poche indovinate sortite nella narrativa fissare nell’immaginario collettivo una serie di coordinate imprescindibili per il filone folk-gotico.
L’idea della piccola comunità isolata dal mondo civile e dedita a letali culti esoterici che innerva la lista di titoli summenzionati, infatti, proviene per l’appunto dal suo secondo romanzo datato 1973, La festa del raccolto (Harvest Home in lingua originale), una storia talmente feconda ed ammaliante che «Sua Maestà» King, mai parco nell’accendere ceri ai propri padri putativi, ha dichiarato di averlo letto e rimasticato senza risparmio prima di mettere a segno il suo Children of the Corn.
Ma di suggestioni pescate a caso da uno qualsiasi degli altri libri che infoltiscono la bibliografia di Tryon (dieci in tutto, contando una raccolta di racconti e un romanzo postumo) se ne potrebbero citare a bizzeffe, come ad esempio il rapporto fiabesco eppur sinistro tra i bambini e gli animali da circo (The Adventures of Opal and Cupid, del 1992), o l’idea dell’orfano proveniente dalla Germania nazista che rivive i pregiudizi di razza all’interno di un campo-scuola estivo americano (The Night of the Moonbow, 1989), fino alla rivisitazione in chiave moderna del mito dell’apprendista stregone che scopre la spietata immoralità dietro alle leggi che regolano la magia (Night Magic, 1995); senza contare ovviamente le trasposizioni dirette di alcuni dei titoli più noti dello scrittore, come la versione filmica del suo Fedora (1976) per mano nientepopodimeno che di Billy Wilder o la miniserie TV tratta proprio da La festa del raccolto con una smisurata, sempre ipnotica Bette Davis, trasmessa nel 1978 dalla NBC e diretta da Leo Penn, padre del divo hollywoodiano Sean.
E quindi chi era esattamente Tryon? Ecco, appunto: quaggiù nelle italiche lande ne sappiamo poco o punto poiché di questo fondamentale storyteller in grado d’illuminare di una nuova riconoscibilità un genere sino allora bistrattato come l’horror fornendogli lo spessore letterario utile a vincere la neghittosità della critica del tempo (non fu il solo, ovvio, se si pensa che il suo lavoro è coevo a numerose altre primizie come Rosemary’s Baby e The Exorcist), il nostro paese ha smesso da un pezzo d’interessarsi e le sue opere, finite inspiegabilmente nel dimenticatoio, risultano praticamente irrintracciabili dalla fine dei Settanta impedendo di fatto alle nuove generazioni di lettori di godere delle eccelse prove di quello che è stato invece un vero maestro, e non solo della narrativa pop. Ed allora è quindi un evento particolarmente lieto per i cultori della materia (ma anche per chi semplicemente ami la letteratura tout court) la rentrée in Italia del suo debutto, L’altro, esordio finalmente rimaterializzatosi tra gli scaffali delle nostre librerie grazie alla meritoria riscoperta delle edizioni Fazi.
Originario di Hartford, Connecticut, il giovane Thomas si arruolò nel 1943 in Marina per prendere parte all’ultima fase delle operazioni belliche nel Sud del Pacifico, ma finita la guerra nel suo orizzonte cominciarono presto a orbitare lo spettacolo, il teatro e la sceneggiatura. Fatta una breve gavetta a Broadway, nei musical, riuscì a ottenere un contratto d’attore nella rinomata scuderia Disney (di bell’aspetto, divenne subito celebre in tv col personaggio di Texas John Slaugther, noto alle nostre latitudini come Il ritorno di Texas John). In seguito, dopo aver affiancato fior d’interpreti in pellicole cinematografiche di rilievo (Rod Steiger in Furia infernale, del 1957, Charlton Heston in I violenti dell’anno prima, ma pure Marilyn Monroe nell’incompiuto Something’s Got to Give, diretto da Cukor nel 1962), raggiunse il culmine della carriera con la nomination per il Golden Globe per Il cardinale (1963) di Otto Preminger, regista che lo scelse anche per il successivo Prima vittoria in cui il nostro recitava assieme a John Wayne (1965).
Giunta al suo apice, paradossalmente, la parabola attoriale dello scrittore si concluse proprio grazie a questo film: per tutta la lavorazione l’interprete dovette infatti subire la violenza psicologica e le continue intemperanze del regista, che arrivò a licenziarlo brutalmente umiliandolo proprio il giorno in cui i suoi genitori erano venuti a fargli visita sul set. Ultimate le riprese, Tryon celebrò senza troppi rimpianti il proprio definitivo addio allo star-system per dedicarsi a tempo pieno alla pagina scritta: i risultati non tardarono ad arrivare e ben presto la sua popolarità di romanziere mise in soffitta quella di divo del grande e piccolo schermo.
L’altro, che all’uscita in patria divenne un best-seller da tre milioni e mezzo di copie e ispirò l’omonimo film di Robert Mulligan, mancava dalle nostre librerie dal 1972 (a metterlo in catalogo fu la Mondadori, cui si deve anche l’edizione di due anni più tardi de La festa del raccolto) ed è fuori discussione trattarsi di uno di quei libri che lo status di «classico dell’orrore» se lo è meritato non ai punti ma per evidente, indiscutibile knock-out.
Ambientato negli anni Trenta, in una cittadella sperduta del Connecticut, Pequot Landing, luogo immaginario presente anche in molti dei successivi romanzi in cui rivive la piccola comunità di Wethersfield dove l’autore ha trascorso l’infanzia, il romanzo è una raffinata storia di fantasmi e possessione demoniaca basata però - anche in questo assolutamente all’avanguardia - sul fascinoso e modernissimo tema del doppelgänger malvagio.
Comincia come un libro di puro intrattenimento, srotolando la vicenda in maniera abbastanza tradizionale con due gemelli, Niles e Holland, che vivono spensieratamente una caldissima estate rurale nonostante una grave tragedia abbia colpito la famiglia pochi mesi prima: la morte del loro padre in un tragico incidente. In seguito a quella terribile dipartita, la mamma dei ragazzi si consuma in uno stato d’isolamento nella sua stanza mentre i due fratelli, pur simbiotici, maturano una personalità opposta: Niles è dolce, amorevole e ingenuo laddove Holland è freddo, ambiguo e spesso cinico.
C’è quindi un assassino psicopatico al centro dell’azione e una serie di morti agghiaccianti e macabre a cadenzare il passo di un narrato che all’inizio non riserva sorprese. In particolare, l’avvio sembra ricalcare il sottogenere del «pazzo della porta accanto», in cui un vicino o un membro della famiglia dall’aria innocua si rivela in realtà un omicida a sangue freddo – si pensi allo zio Charlie di L’ombra del dubbio di Hitchcock, o al giovane protagonista di Il talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith. Ma, a dispetto di una ragguardevole dose di effetti grandguignoleschi, il lettore intuisce presto che il fiume carsico di morti che Tryon sta scoperchiando per il suo diletto è ben più mefitico e movimentato di ciò che appare. Col procedere delle pagine ci si rende infatti conto che la premessa narrativa ha cominciato lentamente a strambare e, nonostante l’escalation di cadaveri, l’identità dell’assassino si fa sempre più dubbia: non ci chiediamo più che farà il protagonista, bensì cosa effettivamente egli sia.
A tradimento, con asincronie abilmente celate, la trama inizia a tracimare verso territori sovrannaturali, senza peritarsi di evocare in chi legge capisaldi come Il giro di vite di Henry James o L’incubo di Hill House di Shirley Jackson. Ma per quanto facile e riduttivo è praticamente impossibile non ricorrere a una qualche lista di numi tutelari per descrivere le atmosfere di questo romanzo, perché la prosa di Tryon - «Mentre l’acciaio gli squarciava il petto, frantumando carne e ossa, il suo urlo mise in fuga i topi per lo spavento, e sangue caldo, tutto rosso e schiumoso, con piccole increspature come macabri merletti, schizzò sul fieno giallo, e un istante dopo, Winnie e il signor Angelini erano accorsi dalla pompa e, sul pontile, col parasole tremolante, Ada rimase immobile, il corpo irrigidito, il capo leggermente rivolto, ad ascoltare l’urlo che le giungeva alle orecchie e con esso, sulla brezza, il ronzio indolente di un’armonica, mentre le dita della mano tremante premevano sempre più ferocemente le punte acuminate della falce di luna dorata appuntata sul petto» - è un efficace impasto di lirismo e suggestione che coniuga con persuasività le lezioni delle migliori penne della letteratura USA: da Twain a Faulkner, da Steinbeck a Bradbury. Sicché un raccapricciante caso di omicidi seriali si fa d’incanto riflessione nostalgica sul passato, e una storia di formazione disfunzionale diventa l’analisi di un gruppo familiare schiacciato dal dolore.
Richiamando strumentalmente un’epoca naïf in cui i ragazzi scorrazzavano per fienili e gli adulti si sedevano all’ombra dei portici bevendo salsapariglia fredda e birra alla radice per combattere il caldo, Tryon reifica fantasmi di ancestrali credenze che sono da sempre il cemento della vita di provincia (di ogni parte del mondo) per servire al lettore quella che, nelle parole di Dan Chaon in postfazione, è «un’intensa meditazione su infanzia, rimpianto e perdita. Ed è la tensione tra questi due impulsi in apparenza contrastanti a conferire al romanzo il suo strano e bellissimo potere».