Tuttolibri, 6 marzo 2021
Intervista ad Alka Joshi
Una delle maggiori preoccupazioni di Alka Joshi - un’imprenditrice indiana trasferitasi negli Stati Uniti da piccola e diventata, a oltre 60 anni, una scrittrice da classifica del New York Times - era come il pubblico indiano avrebbe accolto il suo primo libro, L’arte dell’hennè a Jaipur. Primi tra tutti i suoi genitori, che ora non ci sono più, ma che avevano fatto in tempo a leggere le prime stesure. «Mia madre ha avuto da ridire sui disegni con l’henné di cui parlo nel libro e che, ai suoi tempi, non erano così complessi e sofisticati, ma molto più primitivi. Io le ho risposto che, come romanziera, potevo pure permettermi di inventare qualcosa». Suo padre, invece, uno degli ingegneri che avevano ricostruito l’India dopo l’indipendenza dall’Impero britannico nel 1947 e che poi era emigrato nel Midwest assieme alla famiglia, aveva fatto un commento sorprendente: «"Alka, in questo libro non hai messo neanche un personaggio gay". E aveva ragione: per questo nel sequel ci sarà».
Joshi vive da anni in California assieme al marito, parla a raffica e con l’entusiasmo di chi va molto fiero di quello che è riuscito a fare. Lakshmi, la sua protagonista che si costruisce una propria indipendenza economica decorando le mani, i piedi e, a volte, anche le pance delle sue clienti, è ispirata in parte a se stessa, ma soprattutto alla figura di sua madre, la cui vita, però, ha avuto un destino decisamente diverso.
Che cosa ha fatto nella vita prima di diventare scrittrice?
«Per anni ho lavorato in aziende di marketing e pubblicità, ma ogni volta che chiedevo un bonus, giustificato dai risultati ottenuti, andavo a sbattere contro il "tetto di cristallo": mi dicevano che ero una che creava problemi. Dopo 11 anni, mi sono stancata. Sono sempre stata una persona ambiziosa, così ho deciso di aprire una mia azienda. Nel primo anno ho fatturato 400 mila dollari, molto più di quello che mi sarei mai immaginata. Ho capito che il successo può arrivare soltanto quando decidi di fare le cose a modo tuo. È la stessa cosa che accade a Lakshmi, ed è anche il motivo per cui nella mia agenzia assumo solo donne, perché a loro non vengono date le stesse opportunità. Nell’America che tutti credono così progressista dobbiamo ancora combattere per ogni singola cosa».
E la scrittura come è arrivata?
«Nel 2008 c’è stata la crisi finanziaria e la mia azienda ne ha sofferto. Allora mi sono detta: "Cosa posso fare ora, visto che le cose non miglioreranno prima di un paio di anni?". Un paio di anni erano perfetti per prendere un master. Incoraggiata da mio marito, mi sono iscritta a un corso di scrittura vicino a casa, ci andavo in bicicletta. Il mio obiettivo era di arrivare alla fine con in mano un romanzo su cui lavorare. In quello stesso periodo, avevo iniziato ad accompagnare mia madre a Jaipur, nel Rajasthan, dove mio fratello aveva comprato un piccolo condominio. Stavo con lei qualche settimana, poi tornavo a riprenderla alla fine del semestre, fermandomi di più in estate».
Che cosa facevate?
«Nella Città rosa, come viene chiamata Jaipur, vive la nostra famiglia allargata. Andavamo spesso al bazar, a guardare i sari, i gioielli, le scarpe. Una volta, mentre visitavamo il Jaipur Palace, mia madre si è improvvisamente ricordata di avere incontrato proprio lì la Maharani, sposa del Maharaja, che aveva invitato a prendere il tè le mogli delle famiglie che si erano trasferite all’estero. È stato allora che ho capito: la storia che avrei raccontato sarebbe stata quella di mia madre che, a 18 anni, era stata costretta da suo padre ad abbandonare gli studi di psicologia per sposarsi con un ragazzo al quale non aveva mai rivolto la parola. Decisi però che la protagonista, Lakshmi, avrebbe avuto un destino diverso dal suo: invece di avere subito tre bambini, la donna decide di lasciare il marito, cambia città e trova la propria libertà grazie al lavoro di artista dell’hennè».
Pensa che quello tra i suoi genitori sia stato un matrimonio felice?
«Credo ci sia stato del buono e del meno buono, come in molti matrimoni. Nemmeno mio padre avrebbe voluto mettere su famiglia così presto, ma in India appena ti sposi le persone si aspettano che tu faccia subito dei figli. La pressione è fortissima, anche oggi».
Lei è arrivata negli Stati Uniti a 9 anni. È vero che, per un lungo periodo, non volle più avere niente a che fare con l’India?
«Fin da piccoli ci facciamo un’idea di come veniamo percepiti dagli altri. Per i miei compagni, io venivo da un Paese sottosviluppato, sporco, analfabeta e dove si moriva di fame. Ricordo che tornavo a casa e chiedevo a mio padre: "Ma è vero che noi adoriamo le vacche?". Eppure i miei ricordi dell’India erano molto diversi: frequentavamo una scuola di suore cristiane, imparavamo l’inglese, avevamo una tata che ogni sabato ci portava al cinema a vedere Ercole, mia madre aveva del personale di servizio. All’inizio ero molto confusa, poi ho incominciato a vergognarmi, alla fine semplicemente smesso di parlarne. Solo quando sono tornata in India con mia madre ho iniziato a guardarla con i suoi occhi e a vederne la bellezza, i colori, la frutta, i fiori. Il punto è che viviamo tutti in un mondo pieno di contraddizioni, dove è possibile vedere un homeless di fronte all’ingresso di una multinazionale, ma l’India sembra avere un modo di accettare queste contraddizioni che non ho mai trovato in Occidente».
Nonostante la provenienza da un ambiente tradizionalista, sua madre l’ha cresciuta in maniera molto libera.
«Mi ha sempre spinta a studiare e lavorare, così da non dovere dipendere da nessun uomo. Ricordo che quando mio padre mi mandava in cucina ad aiutare la mamma, cosa che coi miei fratelli non faceva, lei mi rispediva in sala a finire i compiti».
Lakshmi decide di non avere figli, una cosa che ha in comune con lei.
«Per tutta la vita mi sono sentita chiedere perché non volessi dei figli quando, in realtà, avrei dovuto volerli. Per questo ho voluto che anche per Lakshmi fosse una scelta deliberata. Penso che solo accettando che come donne siamo tutte diverse, e abbiamo desideri diversi, potremo arrivare a chiedere e ottenere maggiori diritti per tutte quante».
Andando spesso in India, di quali cambiamenti è stata testimone negli ultimi anni?
«Le giovani donne della classe media hanno incominciato a far sentire la propria voce: dicendo ai genitori di voler portare a termine la loro istruzione prima di sposarsi, oppure di volere sposare un compagno di studi di cui si sono innamorate invece che il ragazzo scelto dalla famiglia, o ancora di volere aspettare di avere una carriera prima di fare dei figli. Non sempre funziona, ovvio, ma se per la generazione di mia madre la percentuale di matrimoni combinati era il 95% oggi è scesa all’80%».
Il suo libro è piaciuto al pubblico indiano?
«Una delle mie preoccupazioni più grandi era che gli indiani mi dicessero: "Ma perché scrivi dell’India se non ci abiti da tantissimo tempo?". Per questo ho fatto ricerche accuratissime, e alla fine molti mi hanno detto di avere amato il libro proprio perché li ha fatti sentire orgogliosi di essere indiani. A preoccuparmi era anche il modo in cui sarebbe stato recepito dai musulmani: nel mondo c’è l’idea che indù e musulmani non possano andare d’accordo, ma nella realtà di ogni giorno fanno la spesa insieme, vivono negli stessi posti, hanno delle attività insieme, tra loro c’è una simbiosi. Per questo ho voluto che Lakshmi, che è indù, avesse come amico Malik, che è musulmano. Ora moltissimi lettori musulmani non vedono l’ora di leggere il sequel perché sarà in centrato proprio su di lui».