il Giornale, 6 marzo 2021
Intervista a Gaetano Pesce
«Come si sta qui? Oggi (ieri per chi legge, ndr) è una bella giornata, in un modo o nell’altro le cose vanno meglio, nonostante un sindaco non certo all’altezza della situazione. E comunque ho fatto le mie due dosi di vaccino, e già da un mese: com’è che da voi in Itaia si procede così a rilento? Ci saranno sempre cose che non riesco a spiegarmi del mio Paese». Gaetano Pesce parla al telefono da New York, dove vive dagli anni Ottanta: «Le notizie che leggo mi ricordano che siamo dei polverosi provinciali, una nazione vittima della burocrazia, in cui tutti vogliono dire la loro senza avere alcuna cognizione di causa. Adesso abbiamo finalmente un premier di tutto rispetto, ma il mio timore è che venga fagocitato dalla pesantezza dei politici, gente che non conosce il mondo e che fa rimanere l’Italia indietro».
Scultore, designer, architetto: Pesce, classe 1939, è Pesce. Schietto e diretto. Campione del design radicale, in parole ed opere. Ha appena donato al comune di Ferrara, grazie alla complicità di Vittorio Sgarbi, presidente di Ferrara Arte, la sua Maestà Sofferente. Probabilmente la ricordate: è un’enorme installazione, una rivisitazione di 8 metri della sua celebre poltrona Up 5&6, dalle forme chiaramente femminili, qui trafitta da quattrocento frecce, il cui poggiapiedi è una sfera cui l’installazione è incatenata. Intorno alla donna-poltrona, ci sono 6 sculture con teste di animali feroci. A partire dall’8 marzo sarà collocata in piazzale San Giovanni, una delle rotonde di accesso alla città.
Quando venne esposta in piazza Duomo, a Milano, non andò benissimo.
«Già. Quando concepii per la prima volta la Up 5&6 per la B&B, che allora in realtà si chiamava ancora C&B, era il 69: non si parlava molto dei pregiudizi e delle violenze di cui le donne erano sovente vittime. Ero felice che un oggetto industriale che entrava nelle case potesse lanciare un messaggio importante. Aveva un significato politico. Cinquant’anni dopo, nel 2019, in occasione della Design Week milanese, abbiamo deciso di riproporre l’Up, ma su scala e in modo diverso, visto che la questione femminile nel frattempo si era aggravata».
Tempo di tagliare il nastro e un gruppo di femministe spruzzò della vernice rosso sangue contro l’idea della «donna come mobile».
«Una polemica che mi fece dispiacere. Mi ha ricordato un’altra forma di ignoranza e provincialismo che affligge Il Paese».
Cioé?
«L’idea che di donne possano parlare solo le donne. Mi viene in mente che in quei giorni, ero a Milano, guardai la tv, c’era un certo Fazio, possibile?».
Sì, Fabio Fazio.
«Ecco sì, lui. Parlava del mio lavoro con una signora piccolina che faceva battute»
Luciana Littizzetto?
«Non ne conosco il nome, non ricordo, ma rimasi colpito quando disse che gli uomini non hanno il diritto di parlare dei problemi delle donne, e il conduttore annuiva. Ero sbalordito. Io credo che chiunque ne possa parlare e sono felice che Sgarbi abbia trovato il modo di sistemare l’opera a Ferrara che, nei miei ricordi di studente di architettura, è la città che ha dato i natali a Biagio Rossetti, il primo urbanista della storia. Vorrei comunque aggiungere una cosa, per evitare altri fraintendimenti».
Prego, dica.
«L’opera è un omaggio alle qualità fluide e creative della donna, alla sua capacità di generare vita e pluralità ma ancor di più, significa denunciare la sua condizione subalterna e i soprusi che spesso, ancora oggi, è costretta a subire. Le 400 frecce ricordano i numerosi abusi quotidiani».
In Italia siamo a 16 femminicidi dall’inizio dell’anno.
«Ecco, vede che bisogna parlarne? La sfera, originario poggiapiedi della poltrona, è la palla al piede del prigioniero. Sono fortemene convinto che il futuro del mondo sarà migliore con una maggiore presenza delle donne nella vita pubblica: vorrei che si discutesse di questo».
Non è la prima volta che i suoi lavori anni ’70, riproposti oggi, generano incomprensioni. Penso alle critiche per L’Italia in croce, esposta a Padova nel 2018: siamo diventati bacchettoni?
«Viviamo nell’era dell’omologazione e del pensiero unico. E ci s’indigna per qualsiasi cosa, per partito preso. Ma mica accade solo in Italia. In America, quello che era il partito di Kennedy è diventato estremamente conservatore: Nancy Pelosi ha proposto di rieducare chi ha votato per Trump. Rieducare non è un termine che ricorda certe repubbliche sovietiche?».
Che cosa pensa della cancel culture?
«È il frutto della mancata conoscenza della storia: si abbattono le statue di Lincoln o di Colombo per ignoranza dei fatti. Un Paese come l’America, simbolo di apertura e discussione sulle idee, sta diventando la nazione del pensiero unico dominante. Che ne sarà di New York, una città che si nutre della ricchezza delle minoranze etniche, che devono mantenere ben visibili i segni della loro identità?».
È pessimista sul futuro?
«No, credo che questo sia solo un momento di passaggio. Sono tempi interessanti».
Che poi è il titolo della sua mostra che ha aperto lo scorso novembre in Cina, a Pechino: è stata una delle pochissime esposizioni inaugurate nell’anno della pandemia.
«Sì, e mi hanno promesso per maggio una nuova grande mostra in tre musei».
È in Cina il futuro del design? E il made in Italy?
«Il nostro design sta perdendo colpi: le industrie di settore guardano solo ai ricavi immediati, investono poco nella ricerca sui nuovi materiali e sulle idee che permettono di guardare al futuro. È un peccato»i.
Che cosa ha fatto Gaetano Pesce durante questo anno pandemico?
«Mi sono isolato nel mio studio per riflettere, come un eremita d’altri tempi, e ho lavorato in modo efficace: le mie ultime opere sono assai diverse dal passato, perché l’arte è specchio della realtà. L’unica possibile forma di coerenza nel linguaggio artistico è l’incorenza, perché la vita è fatta così».
Il progetto per cui vorrebbe essere ricordato?
«Up, che è un lavoro sulla donna, mi onora».