6 marzo 2021
In morte di Carlo Tognoli
Piero Colaprico, la Repubblica
Era un politico innamorato perso di Milano. Della sua, della nostra, di tutte le Milano possibili e anche, se così si può dire, delle visioni della Milano che verrà.
Se ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, scrive che «La notizia della scomparsa di Carlo Tognoli mi rattrista profondamente » e se anche Silvio Berlusconi dice che «se ne va un sindaco stimato nel mondo e amato dai milanesi, dotato di una grande passione per la sua città», significa anche che Carletto, anzi "il Carletto", o anche "il Tognolino", ha lasciato il segno. Di lui si diceva che «è uno che c’è sempre».
Socialista che s’ispirava a Filippo Turati e primo cittadino per dieci anni, dal 1976 al 1986, forse ha calpestato ogni metro quadro della metropoli più internazionale d’Italia. Lo si trovava non solo nelle occasioni della Milano che, attraversando i fiumi di sangue degli Anni di piombo, aveva guidato sino all’approdo luccicante della cosiddetta "Milano da bere", della Borsa che tirava e del made in Italy della moda. "Tognolino" spuntava nelle serate all’osteria della Briosca, dove ancora si esibivano i cantanti della ligera, la vecchia mala.
Poteva a pranzo sedersi a tavola con qualche industriale o banchiere, o con i grandi palazzinari, ma a cena alzare il bicchiere di barbera con gli operai della periferia più lontana. Aveva un credo: poter medicare ogni ferita con la cultura e con il «ritrovarsi».
Concerti a prezzi popolari, investimenti nei teatri, il sodalizio con Giorgio Strehler e con il Piccolo, la Scala che apre a studenti e lavoratori e non più e non solo alla borghesia dei danèe. Aveva visto lontano anche sui temi dello smog: si deve a lui e all’assessore al Traffico Attilio Schemmari se Milano, sulla spinta dei movimenti verdi e dei comitati dei cittadini, nel 1985 bloccò al traffico delle auto private il centro, dal Duomo all’intera Cerchia dei Navigli.
Non alto, spesso in elegante gessato, occhi simpatici e sgranati dietro gli occhiali, era nato in viale Romagna, papà morto in guerra in Russia. Finché ha potuto, gli spuntava un mezzo toscano in bocca. E non gli dispiaceva andare in Galleria – quando in piazza Duomo c’era al 19 l’ufficio dell’immanente segretario politico del Psi Bettino Craxi – e partecipare al rito del drink: un Americano, o uno Sbagliato, una piccola pausa, ampiamente meritata, dopo giornate da stacanovista.
Dentro Palazzo Marino, Tognoli diventò un po’ "robotico", come scrisse Giorgio Bocca, nel senso che aveva tutto sotto controllo ed elargiva cifre, dati, analisi su qualunque argomento che avvalorasse l’efficienza meneghina. Aveva studiato da perito, lavorato in aziende chimiche e a vent’anni s’era iscritto al Psi di Pietro Nenni.
Nell’anno della «madre di tutte le stragi», quella di piazza Fontana – 1969 - era lui il segretario cittadino del Psi e Aldo Aniasi, l’ex partigiano Iso, il sindaco. Poi, sette anni dopo, dopo essersi fatto le ossa come assessore, entrò lui nell’ufficio del primo piano, affacciato su piazza San Fedele, il sancta sactorum, sostituendo Aniasi. Ci arrivò a soli 38 anni, un enfant prodige per i nostrani standard gerontocratici. Numero uno di una giunta rossa, sostenuta dal Pci, il più giovane sindaco di Milano sembrava destinato a una lunga carriera.
Eurodeputato e ministro, non apparteneva però al gruppo dei craxiani ortodossi. Nella vera stanza dei bottoni non riuscì a entrare. Il Primo Maggio del 1992 lui e il suo successore, Paolo Pillitteri, organizzarono una conferenza stampa per respingere le accuse di mazzette che aveva portato in carcere – era l’inizio di Tangentopoli – alcuni portaborse del Psi. Là finì la stagione di "Tognolino" che, poco dopo, ricevette da Enrico Cuccia, il super banchiere della Grandi Famiglie italiane, un incarico in Mediobanca. Ieri s’è spento a 82 anni, a casa sua, con la consapevolezza di aver vissuto sino in fondo l’amore per Milano, ricambiato da chi, ancora nei mesi scorsi, incontrandolo gli diceva «Ciao sindaco».
Ogni tanto arrivava ai vecchi amici, e anche ai giornalisti, la sua telefonata, con un’idea, un educato rimbrotto, un complimento.
Erano stati una brutta caduta, e il femore rotto, e poi il Covid contratto in ospedale a togliergli di mano il telefonino e la voglia di intervenire. Sua moglie Dorina l’ha portato a casa, una settimana fa, dall’inutile riabilitazione. Lascia due figli, Filippo e Anna, chiamati così in onore dei socialisti Turati e Kuliscioff, che avevano casa, oltre un secolo fa, proprio in quella Galleria dove «Carletto» amava fermarsi a guardare la prospettiva di piazza del Duomo. Come dice il suo ultimo successore, Beppe Sala, «Milano piange un uomo politico concreto e aperto alle riforme, un milanese vero». E si sa che, come cantava Lucio Dalla, Milano quando piange, piange davvero.
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Chi dà per spacciata Milano deve sempre ricredersi”, era stata una delle prime risposte in un libro-conversazione intitolato “Milano e il suo destino. Dalla città romana all’Expo 2015”. Uscito nel 2010, ventiquattro anni dopo che aveva finito di fare il sindaco, diciotto anni dopo aver abbandonato la politica attiva. Di Milano Carlo Tognoli, che è morto ieri a 82 anni, era stato sindaco per dieci anni, dal 1976 al 1986. Poi più volte ministro, per le Aree urbane, per il Turismo e lo spettacolo. Forse l’idea di accettare quella conversazione sulla storia e il destino della sua città, nel momento in cui si avviava la sua più recente trasformazione, Expo, gli era venuta dalla consapevolezza che per essere un buon politico, un buon amministratore, ci vogliono anche cultura e senso della storia. Della prospettiva.
L’interlocutore di quel libro conversazione, più che libro intervista, era Lodovico Festa, politico dell’altro partito della sinistra in quegli stessi anni, poi cofondatore del Foglio e poi saggista e scrittore. Con Festa si può provare a capire un po’ più in profondità quale sia stata la traiettoria politica di Tognoli, evitando le frasi di circostanza e scavalcando a piè pari le ipocrisie sul “socialista onesto” che piovono in queste ore sui social. “Con Tognoli avevo avuto rapporti più che altro formali negli anni ’70 e ’80, poiché non mi occupavo in modo diretto dell’amministrazione cittadina. Avevo di lui la considerazione che avevano tutti: un sindaco capace, pragmatico, un riformista con una visione precisa dei problemi. Il solo fatto che, decenni dopo, entrando in un bar con lui si formava inevitabilmente un capannello di cittadini che lo salutavano, gli rendevano omaggio per il suo lavoro, basta a spiegare quanto sia stato apprezzato. Poi ho avuto la possibilità di un rapporto più intenso, di scoprirne altre qualità”. L’occasione è stata il libro sulla storia di Milano. “Conversando con lui mi ha colpito innanzitutto la chiarezza delle sue idee sulla politica, sulle direzioni importanti dei suoi sviluppi. Ma ancor più mi ha colpito la sua qualità culturale. Su ogni aspetto aveva un punto di vista profondo, approfondito. Che si parlasse di storia, di architettura, di un certa chiesa, di urbanistica, di Gadda”. Eppure, Tognoli non proveniva dall’accademia o dal mondo delle professioni intellettuali. Era perito chimico, aveva frequentato la Bocconi da studente lavoratore, mentre già era attivo militante del Psi. “Sì, ma il suo percorso è la dimostrazione che per fare politica, o per essere un amministratore che non si occupa soltanto della gestione minuta, pur importante, occorre cultura. Occorre la capacità di approfondire, di formarsi un’opinione non generica delle cose. Lui lo ha perseguito per sé. Tognoli è stato uno dei migliori esempi, assieme ad altri, di un ceto politico che aveva una cultura e una visione”. Quegli anni, caratterizzati da un ciclo di cambiamenti e anche dall’uscita dagli Anni di piombo, sono stati anche gli anni in cui Milano ha impostato una parte del suo futuro. “Il progetto del passante ferroviario, la decisione sul trasferimento della Fiera, l’opzione di Malpensa: sono scelte decisive, di urbanistica, di sistema. Grazie anche al ruolo di un amministratore determinato, che sapeva usare le competenze ma sapeva anche interloquire con ‘i competenti’. Per fare questo, ripeto, era necessaria anche una capacità culturale. Di questo abbiamo parlato molto, e mi ha sempre colpito la sua conoscenza. Avere un’idea chiara di Milano come della ‘Città Lombardia’ di Cattaneo: non una capitale imperiale chiusa in se stessa, ma una città che, fin dal medioevo, è il centro di una rete con il suo contado, i centri manifatturieri, i trasporti. Da qui nasceva uno sguardo sistemico, ma anche pragmatico, di quel che doveva essere lo sviluppo di Milano”.
Era moltissime cose: uno che si era mantenuto agli studi da ragazzo, un tecnico, un chimico farmaceutico, poi un bravo amministratore, una persona serissima molto amata specialmente dai sindacati e dai lavoratori perché era intrinsecamente socialista, di quel particolare socialismo milanese che lo aveva fatto viaggiare sugli stessi binari di Bettino Craxi che indossava quel suo grande impermeabile bianco sbottonato e aperto, ed erano grandi amici, molto di più. Erano veramente compagni in un’epoca in cui i socialisti si chiamavano fra loro compagni, ma con una tonalità, un senso molto diverso dalla stessa parola usata dai comunisti.
Dopo essere stato sindaco di Milano dal 1976 al 1986, fu eletto al Parlamento europeo, ma come sindaco era stato il più giovane che la capitale lombarda avesse avuto e infatti per chi lo ha conosciuto a quell’epoca benché gli anni siano passati per tutti, e con quale orrore, riesce davvero difficile dare un volto invecchiato e malato a quel giovane studente, funzionario, consigliere, assessore, deputato, poi anche ministro perché Tognoli proseguì nella sua attività politica anche come ministro dell’Ambiente e delle Aree urbane nei governi Goria e De Mita e per il Turismo in due governi Andreotti.
Naturalmente fu anche lui devastato dalla retata mediatico-giudiziaria di Tangentopoli, come lo fu il suo successore Paolo Pillitteri, altro socialista craxiano, anche lui messo in graticola a suo tempo. Tognoli fu cacciato dalla politica con il rituale avviso di garanzia che ricevette nel 1992, insieme a Pillitteri. Fu allora preso sotto l’ala protettiva di Enrico Cuccia e di Mediobanca, cosa che Tognoli non dimenticò mai perché quel sostegno e quel rifugio gli permisero di superare una crisi feroce in tempi feroci che stroncarono molte vite.