Il Messaggero, 6 marzo 2021
8 marzo 1971, il match del secolo tra Ali e Frazier
Cinquant’anni fa, l’8 Marzo 1971 si svolse sul ring di New York un incontro di pugilato definito Il match del secolo. Il detentore del titolo dei pesi massimi, Joe Frazier, combatteva contro Muhammadd Ali, la leggenda vivente della boxe. Frazier era massiccio e roccioso, Ali agile e scattante. Ma le centinaia di milioni di spettatori che in tutto il mondo seguirono la partita non erano interessati soltanto alle virtù tecniche e alle doti fisiche dei contendenti. Si scontravano due mondi, e apparentemente due ideali. Entrambi erano afroamericani e provenivano da famiglie modeste. Ma le analogie finivano lì. Frazier era cristiano battista, e buon patriota. Il suo avversario era stato processato per renitenza alla leva, aveva perso il titolo, si era convertito all’islamismo e aveva persino cambiato nome: da Cassius Clay a Muhammad Ali. Ce n’era abbastanza perché la gran parte degli americani, non solo i più conservatori, sperassero di vederlo spedito al tappeto. Ma chi era questo colosso alto come un armadio, potente come un toro e agile come una gazzella?
Era nato a Louisville, il 17 Gennaio 1942. La segregazione razziale, il carattere ribelle, il desiderio di rivincita e il fisco possente l’avevano orientato alla boxe, sport che, almeno tra i pesi massimi, sembrava appannaggio dei coloured. C’erano state delle rare eccezioni, dal nostro Carnera a Rocky Marciano allo svedese Ingemar Johansson, che aveva strappato il titolo a Floyd Patterson salvo riperderlo poco dopo, tra i sospetti di trucchi mafiosi.
DUE MINUTI
Ogni dubbio fu fugato quando il 25 Settembre del 62 Sonny Liston disintegrò Patterson dopo due minuti e 10 secondi: gli esperti, impressionati, scrissero che Liston era imbattibile. Nel frattempo Clay, vincitore della medaglia d’oro dei mediomassimi alle olimpiadi di Roma, dove trionfava anche il nostro Nino Benvenuti, era passato al professionismo nella categoria superiore. Dopo una serie ininterrotta di vittorie, Clay sfidò l’erculeo detentore e i due si trovarono di fronte il 25 Febbraio del 64, arcigni e sicuri di demolire l’avversario. Gli appassionati di boxe, e non solo quelli, si accorsero di assistere a una rivoluzione. Non più due lenti pachidermi che cercavano di fiaccarsi con botte micidiali, ma una libellula di muscoli e nervi che danzava davanti al campione in carica, lo provocava a gesti e a parole, teneva bassa la guardia e sembrava, come Achille, irraggiungibile e invulnerabile. Al settimo round Liston dovette ritirarsi, e Clay entrò nella leggenda. Il giorno dopo si convertì all’islamismo, ed entrò nella polemica.
LA PALUDE
L’America stava impantanandosi nel Vietnam. La coscrizione obbligatoria chiamava alle armi tutti i giovani sani: alcuni la ritardavano traccheggiando nelle università; altri ripiegavano nella Guardia Nazionale; altri ancora sconfinavano in Canada, ma la gran parte rispose all’appello. Agli americani sembrava una guerra giusta, come quella di Corea, per arginare il comunismo in Asia. Di lì a qualche anno sarebbe diventata una guerra sporca, inutile, costosa e detestata. Ma nel 1967, quando Ali stracciò la cartolina precetto, fu quasi unanimemente criticato. Fu arrestato e processato, privato del titolo e allontanato da ogni attività sportiva. Altri presero il suo posto, e nessuno più si ricorda più di loro. Finché, appunto, arrivò Joe Frazier. Quando nel 1971 la Corte Suprema annullò la condanna, e Alì fu riammesso in gioco, molti pensarono che il tempo, la mancanza di esercizio e le polemiche lo avessero fiaccato, o comunque reso inidoneo ad affrontare il nuovo campione dei pesi massimi. Invece fu l’incontro, a detta di tutti, più bello del secolo. Quindici riprese fatte di tecnica, di potenza, di eleganza e determinazione. Frazier vinse ai punti, Alì perse con onore.
Il resto fu un seguito di sfide e rivincite: Frazier perse con Foreman, e Foreman fu battuto da Ali. Ma il pubblico ebbe l’impressione che tutti avessero perso lo smalto degli anni d’oro. Quando i due si ritirarono, la boxe internazionale decadde. Credo che pochi, o forse nessuno, ricordi i nomi dei titolari dei pesi massimi di questi ultimi decenni. Alcuni sport, come le arti in genere, hanno la loro età di Pericle e i loro secoli bui. E quando, nel 1984, si diffuse la notizia che Ali era afflitto dal Parkinson, il mondo vide incredulo il faccione di un buon uomo impacciato nei movimenti e quasi inebetito dai farmaci. I macabri ubi sunt nunc della parenetica medievale non si applicano soltanto ai defunti. La decadenza visibile di chi un tempo simboleggiò la forza e l’astuzia può esser anche più straziante della sua morte prematura.
LA MEDAGLIA
Il 9 Novembre 2005 il presidente George W. Bush, repubblicano del Texas, gli conferì, davanti a una platea di austere personalità civili e militari la Medal of freedom, la più alta onorificenza civile americana. Lo abbracciò tre volte, definendolo «un fiero combattente ed un uomo di pace». L’esausto campione ricambiò riconoscente, anche se, rivedendolo in quei momenti, la sua immobile atarassia dovuta all’avanzare del morbo ci commuove e ci ammonisce sulla futilità delle nostre ambizioni. Comunque il suo compiacimento è sincero, e la riconciliazione con il suo Paese totale. Anche Bush ne era convinto: dopo la morte di Ali ne rievocò l’«anima bella» con evidente simpatia.
Old men forget – dice Enrico V prima della battaglia di Azincourt. «I vecchi dimenticano, ma quelli che hanno combattuto con noi resteranno sempre una banda di fratelli». Probabilmente i generali che assistettero alla cerimonia, molti dei quali erano reduci da quella guerra disastrosa, si saranno domandati se fosse giusto onorare un disertore. Domanda legittima, ma senza risposta. Così come il confine tra l’eroismo e la dissennatezza è spesso labile e sfumato, così quello tra il dovere verso la Patria e quello verso i propri ideali è opinabile, e soggetto alle oscillazioni tra la coscienza e la convenienza. Ma in fondo quella medaglia era meritata. Alì non aveva disertato per paura: avrebbe potuto vestire la divisa, anche tra le giungle indocinesi senza rischiare la vita, perché il suo sacrificio sarebbe stato, in quel momento, politicamente intollerabile: i suoi comandanti lo avrebbero esibito orgogliosi, come avevano fatto dieci anni prima con Elvis Presley, e la sua popolarità sarebbe aumentata. Clay scelse il processo, il disprezzo pubblico e la perdita di enormi guadagni. E anche se non potè esibire le sue ferite, davanti ai perplessi reduci di quella strana guerra, esibì la sua umiliante mutilazione psicofisica con le armi che aveva sempre usato sul ring contro avversari anche più giganteschi di lui: la sfida, l’ironia, e una sostanziale bontà.