Francesco Aquila, il cui cognome è diventato anche soprannome nella cucina di SkyUno perché i giudici del programma prodotto da Endemol Shine Italy hanno intuito fin da subito la sua "aspirazione a spiccare il volo", è stato incoronato decimo MasterChef d’Italia in una finale appassionante in sfida con Irene Volpe e Antonio Colasanto. E oggi pensa al futuro con ottimismo.
Aquila, cresciuto in Romagna da genitori pugliesi, ha convinto i giudici Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli con un menu che ha chiamato My way, in cui ha espresso i ricordi della sua vita.
Che cosa pensa sia stato vincente nei suoi piatti?
«Credo il fatto di aver preso degli ingredienti umili, della terra, della mia infanzia e averli trasportati nell’alta cucina. Quando ero bambino gli unici viaggi della famiglia erano dai nonni in Puglia. E per me era una certezza che avrei mangiato funghi cardoncelli, burrata, pane, peperone, pomodori, cetrioli. Prodotti poveri che diventano ricchi con tecnica e sentimento».
Dal programma si è visto un rapporto strettissimo con suo padre. È davvero così?
«Sì, mio babbo Michele è la mia forza, ha sempre creduto in me, mi ha sempre sostenuto, incitandomi a seguire le strade che volevo percorrere. Lavorava molto, lo vedevo poco, ma erano sempre momenti di qualità».
Ha iniziato come cameriere e adesso lavora come docente in una scuola alberghiera. Qual è l’insegnamento più importante per i ragazzi?
«Ho cominciato a lavorare a 14 anni, perché mia mamma Francesca, che lavorava negli alberghi, mi portava con sé. Mi piaceva essere utile. Ma vedevo i titolari degli alberghi trattare i dipendenti come numeri. E non volevo essere un numero. Ho iniziato la scuola alberghiera perché volevo essere un maître e ce l’ho fatta, lavorando in importanti hotel.
Ai ragazzi voglio trasmettere la passione, l’idea di un obiettivo, se non hai un obiettivo magari arrivi a fine mese ma non puoi rincorrere i sogni. Per questo non lascerò la scuola, continuerò a insegnare».
Lei ha molto orgoglio del lavoro della sala. Cosa vuol dire essere un bravo cameriere?
«Io credo nell’etica e nella vocazione del servizio. Un cameriere non è un portapiatti, ma un elemento del ristorante importante come lo chef. È colui che racconta al tavolo le idee del cuoco, che trasmette tutto il lavoro che c’è in cucina, che crea il clima giusto. L’importanza della sala è sottovalutata, ma solo se il cliente si sente bene il ristorante ha vinto».
Ha una passione particolare per il carving, l’intaglio di frutta e verdura, come è nato?
«Ogni anno vado in Thailandia, finita la stagione, un viaggio che pago con le mance messe da parte. Ho cominciato perché seguivo corsi di Thai boxe. Finito il training tutti facevano incisioni su angurie e su papaje. Mi sembrava buffo, e invece serve per la concentrazione mentale. Alla fine mi sono appassionato».
Oltre a 100mila euro di premio, ha vinto la pubblicazione di un suo libro. Come si intitolerà?
«Come il menu con cui ho vinto, My way. Sottotitolo Zio Bricco che ricette! E ne contiene 120 ricette, un’infinità. A me piace crearne in continuazione».