La Stampa, 5 marzo 2021
Intervista al sociologo Aldo Bonomi
«Con le retoriche dall’alto non si mangia: green economy e svolta digitale sono fondamentali, ma senza un Social Recovery non usciremo da questa grande crisi. Vanno riscritti in fretta il welfare e i meccanismi di inclusione sociale, abbiamo davanti dati terribili». Aldo Bonomi, sociologo e direttore del consorzio Aaster, non è stupito dal boom della povertà, perché il trend nasce ben prima del Covid-19 e l’accelerata era inevitabile. Ma è preoccupato che la risposta possa essere parziale e incapace di ricucire il Paese sfaldato dalla pandemia.
Perché l’aumento della povertà colpisce soprattutto il Nord?
«La povertà non ha colpito solo le reti corte della prossimità, le relazioni strette di tutti noi, ma anche le reti lunghe delle moltitudini che si muovevano a cercare lavoro e opportunità. Era questa sete ad attirare nelle città del Nord, che fossero metropoli o città-distretto. Giustamente ci occupiamo del salto d’epoca che interessa tutti noi e che ci porterà dentro una società green e digitale, è sacrosanto e nessuno può metterlo in discussione: la ripresa passerà da lì ed è giusto investirci. Ma una via del centro storico di Milano o Torino piena di negozi in vendita è una rete non meno importante del 5G o dell’Alta Velocità, la desertificazione delle città del Nord non fa danni meno gravi di un cantiere bloccato. E questi numeri lo confermano».
Cosa c’è di diverso rispetto alla grande crisi iniziata nel 2008?
«Una grande accelerazione di un fenomeno che già conoscevamo: l’aumento di chi si vergogna della povertà. Agli sportelli Caritas non vanno più solamente disoccupati e immigrati, ma anche il ceto medio che è passato rapidamente dal faticare su cose importantissime come l’affitto o i libri per la scuola dei figli al non riuscire neppure a mettere insieme il pranzo con la cena».
Di quali categorie stiamo parlando?
«Le do un dato: oltre il 40% di chi si rivolge alla mensa della Caritas è un lavoratore autonomo, precario, figlio dell’epoca dei contratti a termine. La pandemia ha colpito queste reti lunghe che hanno radici nelle città del Nord: sono saltate le opportunità e mancano le reti di protezione. Il mix è pesantissimo».
Tutto questo si traduce in rabbia e frustrazione di molti, specie dei più giovani e di quella fascia dei 30-45enni che, dicono i dati Istat, è la più colpita dalle nuove povertà.
«Il rumore di fondo dell’insofferenza e del disagio cresce sempre di più, non c’è dubbio. C’è tutta una fascia di popolazione che ha tentato di essere inclusa, ci è riuscita a patto di grandi sofferenze per anni e ora ha visto le reti sociali ed economiche spezzarsi. E nessuno ne sta intercettando il disagio, perché mancano gli strumenti».
Come se ne esce?
«Serve un lavoro in due direzioni. Da una parte bisogna riattivare meccanismi di inclusione, accelerando l’ingresso nella nuova epoca dell’economia verde e digitale. Dall’altra c’è grande urgenza di ricostruire il welfare, che non può più essere quello piramidale del fordismo, basato sui codici Ateco che ormai sono poco rappresentativi della nostra società. Servono strumenti nuovi per tutte quelle categorie professionali, dagli autonomi ai precari, che ne sono esclusi».
La riforma degli ammortizzatori è nell’agenda del governo.
«La cassa integrazione non può più essere solo o prevalentemente operaia: ci sono i precari, le colf, gli autonomi, le partite Iva, i creativi che vivono delle reti urbane ora sfaldate. E c’è bisogno di una medicina e di un welfare territoriali per ricostruire le comunità, con figure pubbliche che colgano i segnali, intercettino i bisogni e intervengano. I dati sono drammatici, non possiamo permetterci di delegare tutto alla Caritas e al volontariato. Dobbiamo occuparci dell’inclusione, non è più rimandabile»