Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2021
Petrolio, il jolly dell’Arabia Saudita
Alla vigilia del vertice Opec Plus è ancora una volta l’Arabia Saudita ad avere in mano il jolly che può decidere la partita sul mercato del petrolio. In una sorta di taper tantrum, ipotesi e indiscrezioni come sempre si rincorrono mentre la coalizione si appresta di nuovo a riunirsi per discutere le modalità di ritiro dei tagli di produzione: viste le incertezze che tuttora il Covid proietta sulla ripresa della domanda, i rumor indicano una propensione ad alzare in misura moderata le quote produttive da aprile, se non addirittura a rinviare ulteriormente la graduale riapertura dei rubinetti. La variabile più importante tuttavia è rappresentata dalle scelte di Riad, che non richiedono consultazioni con gli alleati, né tanto meno la ricerca di consensi – quasi sempre faticosa – necessaria per ogni delibera dell’Opec Plus.
Il jolly da giocare in questa mano della partita i sauditi se l’erano procurati all’ultimo vertice, lo scorso 5 gennaio, quando avevano sorpreso il mercato offrendo un taglio extra da un milione di barili al giorno. Ora potranno decidere se prorogarlo (ipotesi poco probabile) oppure se revocarlo, in tutto o in parte, a partire dal prossimo mese. La stretta – che era stata annunciata come temporanea, limitata ai mesi di febbraio e marzo – si è rivelata decisiva per accelerare la riduzione delle scorte globali di greggio e per dare un ulteriore impulso al recupero delle quotazioni del barile, che da allora sono salite di quasi il 30%, ai massimi da oltre un anno.
Il rally – che ha spinto il Brent fino a superare 67 dollari la settimana scorsa – si era afflosciato negli ultimi giorni, in parte influenzato dal temporaneo ribasso dei rendimenti sui titoli di Stato Usa, che ha imposto una correzione a tutto il comparto delle materie prime. Ma nella seduta di ieri un rimbalzo di circa il 3% ha riportato il petrolio del Mare del Nord vicino a 65 $/barile, mentre il Wti è tornato sopra 61 $.
Il focus degli investitori non è soltanto sul tema della reflazione. Nel caso del petrolio ad alimentare gli acquisti è anche un oggettivo e marcato miglioramento dei fondamentali di mercato, che in buona parte è frutto delle politiche dell’Opec Plus e dei sauditi. La coalizione, con un grado di disciplina senza precedenti, continua tuttora a ridurre la produzione di greggio di 7,2 mbg, anche se i consumi nonostante il Covid sono risaliti in fretta. Morgan Stanley prevede un deficit di offerta di 2,8 mbg nel primo trimestre, il maggiore da almeno vent’anni.
Anche per i tecnici dell’Opec Plus, che si sono riuniti in preparazione del vertice, il mercato si sta normalizzando: lo scenario base ipotizzato dal Joint Technical Committee (Jtc) indica un aumento della domanda di greggio di 2,7 mbg tra il primo e il secondo trimestre, più che sufficiente ad assorbire il ritiro di tagli per 2,3 mbg entro giugno, secondo le strategie che il gruppo aveva concordato lo scorso dicembre (i piani prevedevano incrementi graduali, di non più di 500mila bg al mese). Se l’Opec Plus dopo giugno non ritoccherà più la produzione, le scorte petrolifere entro fine anno scenderanno a livelli “normali”.
Quanto allo shale oil, per la prima volta non dovrebbe rompere le uova nel paniere. Anche le gelate in Texas hanno contribuito ad accelerare lo smaltimento delle scorte. E comunque, al netto delle avversità climatiche, le compagnie Usa oggi badano più alla salute dei bilanci che a produrre ad ogni costo. Con il Wti a 60 dollari i maggiori operatori (tra cui Exxon e Chevron) stavolta sono rimasti fermi: ad accelerare il fracking sono state solo alcune società private, assenti nelle aree più prolifiche. La produzione di petrolio Usa, che al suo picco l’anno scorso aveva superato 13 mbg, «quest’anno rimarrà piatta intorno a 11 mbg e in futuro crescerà molto poco», prevede Scott Sheffield, ceo di Pioneer Natural Resources, una delle voci più autorevoli nel mondo dello shale oil.
Vicki Hollub, ceo di Occidental Petroleum, è ancora più drastica: «Negli Usa lo shale non tornerà mai più ai livelli di un tempo», secondo la manager, che elenca come cause «la forte riduzione dell’attività, l’elevato tasso di declino dello shale e le pressioni della comunità finanziaria per privilegiare la disciplina di bilancio piuttosto che la crescita».