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 2021  febbraio 22 Lunedì calendario

Biografia di Elisabetta Pozzi

Elisabetta Pozzi , nata a Genova il 23 febbraio 1955 (66 anni). Attrice. Non si vede in tv. Fa quasi esclusivamente teatro («Roba da monomaniaci»). Esordio nel Fu mattia Pascal con Giorgio Albertazzi, con cui ha poi recitato tra l’altro in Uomo e sottosuolo da Dostoevskij, La conversazione continuamente interrotta di Flaiano, Peer Gynt di Ibsen. Ha alternato ruoli classici e testi contemporanei. Tra gli altri: Frozen di Bryony Lavery, Eumenidi e Orestiade (regia di Pietro Carriglio), Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (Luca Ronconi); Lisistrata di Aristofane (Tullio Solenghi). Nel luglio 2020 protagonista di L’ultima notte di Elena di Ghiannis Ritsos, spettacolo d’apertura del Festival del Teatro Classico di Portigliola. Vincitrice di quattro Premi Ubu (1989,1991, 1996 e 1997) e del Premio E. Duse alla carriera nel 2006. Pochi film: Maledetto il giorno che t’ho incontrato di Carlo Verdone (1992), David di Donatello come migliore attrice non protagonista; Cuore sacro di Ferzan Özpetek (2005); Braccialetti rossi di Giacomo Campiotti, (2015). Da ultimo ha interpretato Isabella d’Este nel cortometraggio di Claudio Pelizzer Isabella, in concorso al Parma International Music Film Festival 2020.
Titoli di testa «Il palcoscenico è il luogo in cui mi sento più a mio agio. Cosa che nella vita non mi capita spesso. Nella vita ho sempre problemi relazionali: non mi so comportare, faccio fatica nei rapporti interpersonali, sono abbastanza selvatica. Di solito, non ho un buon rapporto neanche con la compagnia. Al massimo, con due, tre o quattro persone. Non vivo la storia della compagnia. Io vivo sul palcoscenico, e lì i miei rapporti con le persone sono molto forti. Chiedo molto ai miei colleghi. È il mestiere che, secondo me, faccio meglio. E non ricordo un momento della mia vita in cui non sia stato così» (a Giulia Tellini).
Vita «Sono figlia unica di un generale, che sulle prime era spaventato e poi incuriosito dalla mia passione. La mamma era più spaventata di lui. Ad appoggiarmi è stata nonna Ester, una pavese di gran carattere» • Il debutto a 17 anni. «Allo Stabile di Genova cercavano una ragazzina per la moglie ne Il fu Mattia Pascal, regia di Squarzina. Mi presentai di nascosto ai miei, mi diedero la parte. C’era Albertazzi: al provino dovevo baciarlo all’improvviso. Lo feci con slancio e spudoratezza. Fui scelta per questa mia capacità di distacco» (a Leonetta Bentivoglio). Dopo un provino Giorgio Albertazzi si presentò dai genitori: «Venne fino a casa per parlare con i miei genitori e convincerli a farmi andare, perché sarebbe stata un’occasione unica. Disse loro di fare uno sforzo perché quella era l’età giusta per “i cavalli di razza”» (a Laura Laurenzi) • «Come la prese il padre generale? “All’inizio fu scontro frontale. Ma i miei, via via, hanno sviluppato una capacità straordinaria di comprendermi. Facemmo un patto: avrei dovuto finire il liceo. L’ho rispettato. Fu anche Albertazzi a convincerli che dovevo far teatro. Anzi, diventarono amici. Ebbi quasi la sensazione che gli passassero la mano per la mia educazione”» (a Leonetta Bentivoglio) • «La conversazione “più forte, più importante”, che ha inciso sul suo mestiere di attrice l’ha avuta con Giorgio Albertazzi, “che reputo il mio maestro”, qualche mese dopo l’esordio, “avevo 17 anni”, al teatro Duse di Genova, nella commedia Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello con la regia di Luigi Squarzina. “Il suo effetto non è stato immediato”, avverte. La metabolizzazione è stata laboriosa, e molto lenta, “anche perché le opinioni espresse da Giorgio rovesciavano completamente le idee con le quali avevo affrontato il palcoscenico”. Aveva cominciato, racconta, con la scuola dello Stabile della sua città. In realtà, confessa, non aveva seguito corsi di alcun genere: “Andavo a teatro dall’età di 12 anni, quasi tutti i giorni, se potevo, senza una predilezione particolare: il musical piuttosto che la tragedia. Mi facevo accompagnare dai miei genitori e assistevo agli spettacoli dello Stabile diretti da Squarzina: ricordo una Madre Courage e i suoi figli di Bertolt Brecht interpretata dall’indimenticabile Lina Volonghi; vedevo le rappresentazioni del Gruppo della Rocca e del Teatro Insieme”. Riesumare queste pagine della vita, “l’ultimo anno era anche l’anno della maturità classica”, le è utile per far capire il valore di quel colloquio improvviso e inatteso. “Albertazzi, che era il protagonista della pièce, mi aveva scelto dopo un provino; non ho dovuto fare la trafila dei piccoli personaggi e mi sono immediatamente trovata a recitare accanto ai mostri sacri: lui, la Volonghi, Ferruccio De Ceresa, Lucilla Morlacchi; c’erano anche Massimo Lopez e Tullio Solenghi. I primi tempi sentivo il bisogno di copiarli, di imitarli. La mia cultura teatrale era un’infarinatura di avventure precedenti, di letture disordinate e forsennate, di cognizioni un po’ scarse. Ero molto giovane”. Aveva avuto occasione di parlare con l’attore già celebre, “che conoscevo poco”, durante le prove e le prime repliche del testo pirandelliano. “Un giorno mi è scappato di dirgli, non so bene perché, probabilmente per provocarlo, neanche lo credevo fino in fondo, che la recitazione ha a che fare con l’invenzione: invento qualche cosa, racconto una bugia, una falsità; divento altro da me. Ero vittima del luogo comune, che coinvolge molti, secondo cui l’attore sa mentire bene, è l’abile, grande menzognero. Era anche il modo di difendermi da un mondo che mi attraeva e nello stesso tempo mi impauriva”. Quella sera, un’ora prima dell’inizio di una replica, nel camerino del Duse entra Giorgio Albertazzi. “Comincia a dire, con semplicità, ma con la chiara intenzione di farlo intendere a me, che cosa significhi per lui essere attore. Ciò che pensava era l’opposto delle teorie, molto infantili, che gli avevo accennato, sull’attore colossale bugiardo. Giorgio è stato abilissimo: stare sul palcoscenico, mi ha detto, con pacatezza, senza mettersi in cattedra, è esattamente il contrario. Innanzitutto bisogna avere una conoscenza profonda, addirittura brutale, di se stessi. La vita che vivi all’esterno del palcoscenico non deve mai scindersi dalla vita che vivi sul palcoscenico: è tutt’uno. Soltanto allora sei credibile”» (Luigi Vaccari) • «Con Albertazzi ero protetta. Poi ho capito di aver bisogno di registi che mi chiedessero cose che non sapevo fare, come Krejca, a Genova, nelle Tre sorelle. Uno spettacolo diverso fu L’attesa con Maddalena Crippa: i nostri ruoli si alternavano ogni sera. Nacque dal Teatro di Parma, struttura a cui sono molto legata: aperta, capace di investire sui progetti, di allargare le responsabilità in un clima di collaborazione reale. Con Parma ho fatto anche Max Gericke di Karge, regia di Walter Le Moli: monologo arduo e glorioso. Arrivò in un momento in cui mi dicevo: o trovo una strada nuova o lascio il teatro. Non sopportavo più la mia immagine. Col Max Gericke l’ho cancellata in un volto bianco, in una maschera, quella di un uomo vecchio» (a Leonetta Bentivoglio) • «Ho cambiato continuamente. Non mi fermo mai in un posto. Scappo sempre. Tutti i miei colleghi di Genova, della mia generazione, per anni e anni, sono rimasti lì. Io non ci riesco a non muovermi, ed è pericolosissimo, perché per anni mi sono trovata senza lavoro. Poi ho avuto la fortuna, nel 1997, d’incontrare mio marito, col quale ci siamo inventati questa seconda parte della mia vita, basata sulla ricerca di modi diversi di raccontare le storie, con la musica. Cosa che ora fanno tutti. Ma noi abbiamo iniziato nel 1997, quando già si lavorava con le parole e la musica, ma non come oggi. Noi abbiamo cominciato con la Medea di Christa Wolf. E poi abbiamo continuato. C’inventiamo dei progetti e cerchiamo collaboratori. A volte si trovano, e a volte no. È molto più faticoso piuttosto che stare tranquilli, piazzati in un teatro stabile. Ma io sono così. Ho un caratteraccio» (a Giulia Tellini) • «Carmelo Bene l’ho incontrato nel 1997, l’anno in cui fra l’altro ho conosciuto mio marito, che era il suo fonico. Grazie a Carmelo ho capito tutto sull’uso del microfono, che, come diceva lui, non è un amplificatore. Usato bene, il microfono diventa un microscopio, in grado di enfatizzare, di un attore, anche i fiati. Ogni microfono che usava Carmelo, dai valvolari ai Sennheiser, aveva la sua funzione. Per fare le voci di venti personaggi diversi, lui usava 8-10 microfoni. Io, che facevo Ermengarda nell’Adelchi di Manzoni, usavo un Sennheiser, e lui mi ha insegnato a capire che, in effetti, l’uso del microfono permette di fare cose che, con la voce, non sono possibili» (ibidem) • «Non mi sono mai proposta al cinema. Non ho tempo […] Non mi piace il cosiddetto teatro minimalista, quello che cerca spasmodicamente di trovare linguaggi per tutti: il “quotidianismo”. Non ne posso più. La lingua è mutata, certamente ma non vedo la necessità di adeguarsi allo spaventoso degrado culturale che ci circonda. Mi sto dedicando ad una serie di testi, romanzi e cerco di adattarli per la scena. Il teatro, è stato detto fino alla noia, ha una funzione sociale, allora mettiamola in pratica» (ad Alessandra Rota nel 2002) • Nel 2006 ha acquistato insieme a Daniele D’Angelo un vecchio cinema a Pinarolo Po, lo hanno ristrutturato e lo hanno trasformato in uno spazio aperto per chi voglia fare teatro. Lo spazio si chiama Corte Marconi • Nel 2007 ha promosso a Torino il progetto Théâtre Ouvert. «L’ho copiato da Parigi, dove esiste da trent’anni. È un luogo in cui autori e spettatori si possono incontrare: gli uni leggono i loro testi teatrali e letterari appena nati; gli altri li tengono e battesimo e c’è una casa editrice che li pubblica» (a Claudia Provvedini).
Critica «È una delle poche attrici per cui valga la pena uscire di casa, pagare il biglietto ed entrare in teatro. Quando è in scena, la guardi e senti di non perdere tempo» (Gian Luca Favetto).
Amori Una relazione di otto anni con Giorgio Albertazzi, iniziata quando lei aveva 17 anni e lui ne aveva 35 in più. È sposata con il musicista Daniele D’Angelo, conosciuto recitando nell’Adelchi accanto a Carmelo Bene.
Religione «Razionalmente sono agnostica. Ma poi non riesco a non credere. Credo che una certa spiritualità vada alimentata. Faccio di tutto per ascoltare quello che accade dentro di me. E cerco di recuperare la generosità interiore di quando ero piccola» (a Di Giammarco, cit.).
Corpo «Faccio cento addominali al giorno per avere un fiato adatto ad almeno un’ora e mezzo di spettacolo» (a Rodolfo Di Giammarco nel 2003) •
Passioni  «Oltre al teatro amo due cose nella vita: l’arte figurativa e il rugby» • «Nel 1995 sono andata apposta in Sudafrica per vedere i Mondiali di rugby. La passione è sbocciata a 18 anni, quando il papà di una mia amica ci portò a Padova a vedere gli All Black. Prima della partita hanno fatto l’Haka. Quando l’ho visto mi è venuta la pelle d’oca».
Titoli di coda «Sono felice quando conquisto anche soltanto una persona per sera, ma per ottenerlo devo affinare la mia tecnica, lavorare, tutti i giorni».