Corriere della Sera, 2 marzo 2021
Studiare Gesù oltre il mito
Può uno storico occuparsi «scientificamente» dell’ebreo Yehoshua ben Yosef che visse nel I secolo sotto Augusto e Tiberio ed è stato all’origine di uno tra i più importanti culti religiosi nella storia dell’umanità? È il tema affrontato da Fernando Bermejo-Rubio in L’invenzione di Gesù di Nazareth. Storia e finzione, edito da Bollati Boringhieri. Parlare di «invenzione», precisa l’autore, non significa sostenere che quell’uomo non sia mai esistito. Bensì esprimere – fin dal titolo del libro – il concetto che la storia di quel predicatore («presumibilmente reale») ha subìto – nel corso dei tempi – modifiche tali da rendere quella figura «a stento riconoscibile».
Mettiamo subito in chiaro: che caratteristica dovrebbe avere un’opera «storica» su una figura su cui esistono migliaia di lavori nelle biblioteche e nelle librerie del mondo e sulla quale ogni anno vengono pubblicate un’infinità di nuove monografie? Quella di poter essere «legittimata» davanti al lettore. Una legittimazione quanto mai necessaria dal momento che – a dispetto dei «ricorrenti proclami sensazionalistici» – negli ultimi decenni, a detta dell’autore, non sono apparse nuove fonti, testuali o archeologiche, che «rendano impellente un ripensamento» su ciò che era stato detto e scritto in precedenza. Le «incredibili novità» di cui molto si è parlato (il «Vangelo di Giuda», il presunto ossario di Giacomo, la tomba di Talpiot, il papiro con il «Vangelo della moglie di Gesù») è opinione dell’autore non abbiano offerto agli studiosi niente di rilevante.
D’altra parte è evidente, scrive Bermejo-Rubio, «la mancanza di plausibilità storica della stragrande maggioranza delle opere su Gesù». Si tratta, prosegue, «per lo più di parafrasi dei racconti evangelici, di cui tacitamente si accetta la veridicità essenziale». Nonostante «l’esibizione di erudizione e di credenziali accademiche da parte dei loro autori», tali testi «non offrono altro che un racconto sospettosamente simile a quello che si ritrova in tutta la dottrina cristiana già a partire dai suoi scritti fondanti». Come se lo storico dovesse accettare a scatola chiusa il racconto di «un eroe spirituale e morale che giganteggia sui propri contemporanei». È evidente che ancor oggi l’approccio con cui si affronta l’argomento è intrinseco al culto che «ha fatto di Gesù un oggetto di adorazione». E non sarebbe neanche il caso di far presente che uno studioso quando decide di applicarsi a Gesù dovrebbe trattare questo «oggetto di studio» con «lo stesso distacco riflessivo con cui affronta qualsiasi argomento».
Le fonti che parlano di Gesù «presentano maggiori difficoltà di quanto si lasci intendere», scrive Bermejo-Rubio, che dà torto a coloro che – come Ed Parish Sanders in Gesù, la verità storica (Mondadori) – definiscono le fonti che riguardano il Nazareno «più attendibili di quelle su Alessandro Magno». Quelli come Sanders, puntualizza Bermejo-Rubio «dimenticano molti dati archeologici ed epigrafici relativi al Macedone che, nel caso di Gesù, non abbiamo a disposizione». Hanno ragione invece, sempre secondo l’autore, coloro che si mostrano prudenti e mettono le mani avanti. In ciò è d’accordo con altri importanti studiosi che hanno affrontato la questione. Chiunque si occupi di quel personaggio «scrive da qualche punto di vista ideologico» ha messo in chiaro John Meier in Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico (Queriniana). Quanto ai Vangeli, Dale C. Allison Jr – in Cristo storico e Gesù teologico (Paideia) – ha ribadito che, quando li leggiamo, «dobbiamo pensare non che Gesù disse questo o quello ma piuttosto che Gesù fece cose simili a queste e disse cose simili a quelle». Il biografo che raffigura Gesù «è sempre in qualche modo dogmatico, nel senso peggiorativo del termine» è la drastica tesi di Martin Kähler espressa in Il cosiddetto Gesù storico e l’autentico Cristo biblico (D’Auria Editore). Un encomio particolare va, secondo l’autore, a chi – come Raymond Edward Brown in La morte del Messia. Dai Getsemani al Sepolcro (Queriniana) – si limita a constatare che qualcosa che ci è stato tramandato relativamente alla vita del Nazareno è o non è «verosimile» o «plausibile».
Ciò nonostante, prosegue Bermejo-Rubio «la stragrande maggioranza degli studi su Gesù mostra al riguardo una evidente disinvoltura». Benché la genesi e l’affermazione della scienza comparata delle religioni dall’inizio dell’Età moderna dovrebbero aver garantito un sufficiente distacco critico, il mondo intellettuale contemporaneo continua a dimostrarsi troppo spesso «incapace di affrontare con il dovuto rigore» l’indagine su quell’ebreo del I secolo. Di fatto, «il pio fervore e la prosa ditirambica» con cui ancora oggi viene affrontata la figura di Gesù, nonché l’aura «circonfusa di assoluta singolarità» attribuitagli in opere che, a dire degli autori, seguirebbero un rigoroso criterio storico, non possono che suscitare «una certa perplessità in qualsiasi lettore dotato di senso critico».
Quasi un secolo fa, un allievo di Ernest Renan, Charles Guignebert, nel suo Gesù (Einaudi) metteva in guardia contro la rappresentazione di quel predicatore galileo come personaggio talmente straordinario «per i doni del suo genio», a tal punto fuori dal normale «per la profondità del suo sentimento religioso e la delicatezza della sua sensibilità morale», da non poterlo veramente paragonare «a nulla di umano». C’è in questa raffigurazione «ancora abbastanza comune anche tra i non credenti», osservava Guignebert, «come una sopravvivenza tenacissima della fede atavica nella sua divinità». Qualcosa di «molto imbarazzante per la libertà della critica».
In realtà «la mitizzazione di Gesù è durata per così tanto tempo e con un tale spiegamento di mezzi che ancora oggi è difficile comprenderne la portata anche per menti colte e riflessive». Per avvicinarsi al personaggio «si deve ancora passare attraverso le rappresentazioni consolidate nell’immaginario della cultura occidentale, talvolta in modo così subliminale che molti abitanti della sedicente società secolarizzata non se ne sono a tutt’oggi emancipati». Il problema è che «se Gesù è non solo un personaggio storico ma soprattutto un oggetto di devozione religiosa», scrive Bermejo-Rubio, va tenuto presente che questa devozione è tale «in quanto la memoria di lui è stata radicalmente trasformata mediante un complesso processo di esaltazione leggendaria». Però i dettagli di tale metamorfosi «sono tuttora ignorati o conosciuti in modo impreciso non solo dal grande pubblico ma anche da una larga fascia di intellettuali». Tanto che non pochi studiosi ritengono questo processo di esaltazione «un fenomeno stupefacente» e in ultima analisi «incomprensibile».
Esistono, secondo Bermejo-Rubio, poche idee più reiterate nella storiografia corrente di quella secondo cui Gesù in molte, moltissime occasioni fu «frainteso». L’hanno sostenuto, più o meno esplicitamente, Oscar Cullmann, James Dunn, Rudolf Bultmann, Mircea Eliade, nonché, prima e dopo di loro, centinaia di esegeti e teologi. Gesù non fu – affermano tali esegeti e teologi – un «predicatore apocalittico» paragonabile ad altri della sua epoca. Né aspirò a una «ricostituzione nazionale di Israele». E non volle nemmeno che i suoi discepoli fossero «armati». Il suo messaggio non aveva affatto «implicazioni sovversive» per l’Impero romano. Mai nutrì pretese «regio-messianiche». Sbaglia poi chi ritiene sia stato giustiziato per uno dei suddetti motivi. Ma come è stato possibile un siffatto gigantesco equivoco? I teorici del «travisamento» sostengono che i suoi discepoli – o, più, in generale, i suoi contemporanei – si fermarono alla lettera e non compresero il «significato profondo» delle sue parole. Effettivamente nel Vangelo di Marco i discepoli sono presentati varie volte «come un gruppo che non capisce ciò che il maestro è, dice e fa». Li si mostra «incapaci di comprendere» il senso autentico delle parabole e anche dei miracoli. Ed è lo stesso Gesù ad accusarli di non aver ben compreso quel che egli voleva significare e di non essere riusciti a capire per via del loro «cuore indurito».
Tutto ciò, sostiene Bermejo-Rubio, pone a chi voglia occuparsi della figura storica di Gesù «problemi insormontabili». Fosse vero che Gesù fu frainteso in aspetti chiave della sua predicazione, vorrebbe dire che «fu un maestro straordinariamente incompetente», che «non seppe trasmettere le sue idee in modo chiaro neanche a quelli che egli stesso aveva scelto come discepoli». Inoltre implica che i suoi seguaci sarebbero stati «un branco di inetti, incapaci di intendere ed ottenere spiegazioni dal maestro». Di più: sarebbero state «persone palesemente irresponsabili, poiché avrebbero seguito uno i cui insegnamenti e propositi non capivano». L’idea che è al centro della «teoria del malinteso» – cioè quella di un Gesù «didatticamente inetto circondato da un gruppo di goffi discenti» – dovrebbe essere «profondamente inquietante». Ciò che, secondo questi teorici, i discepoli non avrebbero capito nel significato più autentico «si riferisce a insegnamenti il cui fraintendimento avrebbe potuto avere conseguenze fatali nel contesto del dominio imperiale romano». Se Gesù non volle essere «re nel senso davidico», ma permise invece ai suoi uditori di credere che nutrisse tale aspirazione, avrebbe avuto il torto di suscitare in loro speranze che non solo «sapeva non essere destinate a compiersi», ma che – poteva facilmente immaginare – erano tali da «innescare azioni che le truppe romane avrebbero represso, presumibilmente in maniera violenta».
Consideriamo ad esempio la cosiddetta «entrata trionfale» a Gerusalemme. Se si prende per buono che in quell’occasione ebbe luogo un dialogo tra Gesù e i suoi discepoli nel quale lui ordinò loro di «acquistare delle spade», dialogo che si conclude d’un tratto bruscamente e senza ulteriori chiarificazioni – ad esempio che stesse parlando in maniera metaforica – «il galileo», sostiene Bermejo-Rubio, «avrebbe permesso che i suoi seguaci lo fraintendessero e comprassero spade vere». Con ciò, oltretutto, li avrebbe esposti alla repressione delle autorità costituite. Se «si accettano le pretese correnti», Gesù «non solo avrebbe creato confusione fra i discepoli», ma «avrebbe consapevolmente consentito che intraprendessero azioni destinate a sfociare sia in delusione che in ritorsione da parte dei Romani».
Detto altrimenti, «l’equivoco sulle aspettative di Gesù» avrebbe potuto portare inutilmente i suoi ad un bivio tra la vita e la morte. Stando così le cose, il fatto che il galileo abbia suscitato attese che divergevano dalle sue vere intenzioni, senza sentirsi in dovere di fare chiarezza su questioni così delicate, «rasenta l’incredibile» (oltre a presentarcelo come «un irresponsabile privo di ogni scrupolo morale»). Benché «non ci sia alcuna ragione perché lo storico tragga conclusioni del genere», si affretta a precisare Bermejo-Rubio, questo è quel che si arriva a pensare partendo dal presupposto che «Gesù non fu compreso». Una tesi che «è in ultima istanza autodistruttiva».
Il modo in cui è stata narrata per decenni la storia dell’indagine su Gesù – anche ad accantonare le opere anteriori all’Illuminismo – è dunque, secondo Bermejo-Rubio, «insostenibile». Ed evidenzia la necessità di disporre di un «paradigma storiografico alternativo». Di qui, spiega l’autore, la decisione di scrivere un libro che non ha la pretesa di dire una parola definitiva in merito alla «vera storia» di Gesù. Ma si propone innanzitutto come «atto di chiarezza in un ambito confuso». E come «strumento per quanti, disposti a sottrarsi alla malia del mito, aspirino a comprendere cosa possa rivelare sul personaggio, a prescindere dalle semplificazioni correnti, una riflessione graniticamente indipendente». Ancora molto poco. Purtroppo.