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 2021  marzo 02 Martedì calendario

Biografia di Piero Gobetti

In quest’epoca di trasformismi, giravolte e piroette, il 15 febbraio cadeva il 95° anniversario della morte di un giovane italiano che fu simbolo di coerenza coraggiosa e brillante, Piero Gobetti. Chi conserva memoria di lui ha in mente qualche foto in bianconero di un giovane magro, con i capelli arruffati e gli occhialini da intellettuale. Un personaggio che, nato nel 1901 e mancato a soli 24 anni, ci si chiede come abbia potuto esercitare tanta influenza, non avendo vinto né grandi battaglie, né premi Nobel.
Eppure, il giovane Piero, proveniente da una famiglia di piccoli commercianti, già a 17 anni aveva fondato la sua prima rivista, Energie Nove, e il suo intelletto così acuto e brillante aveva spinto lo storico Gaetano Salvemini, mostro sacro del repubblicanesimo intransigente, a offrirgli nel 1919 la direzione del suo giornale, L’Unità. Gobetti rifiutò, non sentendosi pronto, e, iscrittosi a Giurisprudenza, nel 1920 sospese anche la pubblicazione di Energie Nove perché, scrisse, aveva bisogno di più tempo per studiare e riflettere. Antipatico a Togliatti, collabora nel 1921 come critico teatrale per l’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, studia il russo e la Rivoluzione russa con l’amata moglie Ada Prospero e nel febbraio 1922 fonda il suo periodico più famoso, La Rivoluzione liberale.
A luglio del 1922 si laurea con una tesi sulla filosofia politica di Vittorio Alfieri; nel 1923 fonda la casa editrice «Arnaldo Pittavino & Comp.» (che cambierà varie volte nome) e, nonostante una vile aggressione fascista subita a settembre, il Nostro non si ferma e nel dicembre di quell’anno comincia la pubblicazione di un altro periodico, questa volta letterario, il Baretti. Einaudi, Nitti, Amendola, Montale, Salvatorelli, Sturzo, Salvemini, Prezzolini, Dorso, persino l’anarco-fascista Malaparte pubblicano tramite le sue riviste e la sua casa editrice. Del 1924 è la sua opera più famosa, per l’appunto La Rivoluzione liberale, dove Gobetti analizza criticamente il Risorgimento italiano ed espone le sue tesi sul rinnovamento della società italiana.
Purtroppo, la presa del regime fascista si fa sempre più asfissiante e nel novembre del 1925 La Rivoluzione liberale deve cessare l’attività. Il caparbio intellettuale, pur minato nel fisico, indebolito dalle manganellate delle camice nere, non si rassegna: vuole riprendere le sue battaglie in Francia, dove si trasferisce a inizio del 1926. Una bronchite e un congenito problema cardiaco lo condurranno alla morte solo un paio di settimane dopo l’arrivo a Parigi, dove si spegne nella notte tra il 15 e il 16 febbraio.
Più che un pensatore sistematico Gobetti era, per riprendere le parole di Norberto Bobbio, «un agitatore di idee, lucido, intrepido, appassionato», il cui liberalismo sfugge a classificazioni rigide. Ciò non toglie che la sua produzione intellettuale fu veramente straordinaria e, tra i suoi tanti spunti, tre rimangono più attuali che mai.
In un periodo in cui molti distinguono tra liberalismo progressista e classico e si discetta di liberalsocialismo, la lezione di Gobetti è che il liberalismo è prima di tutto rivoluzionario. La sua visione della classe operaia, portatrice di forza e interessi necessari alla modernizzazione del Paese, ci ricorda che la società non si può cristallizzare. Emergono classi sociali e individui che diventano le novelle élite («aristocrazie dirigenti»), rendendo vitale l’intera nazione. Il movimento operaio, per Gobetti, al di là delle utopie, rappresentava un desiderio di emancipazione. Questo vale anche oggi: soprattutto in Italia sono gli esclusi, i precari, ma anche gli innovatori (quelle che Spadolini, grande ammiratore di Gobetti, chiamava «le classi emergenti del terziario avanzato») che devono reclamare spazio, facendo valere i loro meriti, in un Paese bloccato. Quando il grande filosofo ed economista liberale Hayek scrisse un libretto in cui spiegava «perché non sono un conservatore», era molto… gobettiano.
L’altro filone importante del giovane Piero era l’analisi critica della società italiana. Famosa rimase la sua descrizione del fascismo come «autobiografia della nazione» che metteva all’indice quel misto di trasformismo, fascinazione dell’uomo forte, semplicismo e vanagloria, vera piaga del nostro corpo sociale e politico. Pur tra alti e bassi, questa autobiografia non ci ha mai abbandonato.
Infine, la tensione morale. È possibile essere lucidi, colti e appassionati, disposti al sacrificio e adamantini anche nelle condizioni più avverse, come era l’Italia del primo dopoguerra. E la mancanza di combattenti come Amendola, Matteotti, Sturzo o figure nobili come Einaudi, Turati, Albertini, forse si deve al fatto che ai tempi tragici di un secolo fa si è sostituita una nebbia cinica e rassegnata dove persino un redivivo Piero Gobetti rischierebbe di essere un suono attutito e nascosto.