2 marzo 2021
Ascesa e caduta di Domenico Arcuri
Federico Fubini, Corriere della Sera
Il rapporto fra Domenico Arcuri e Giuseppe Conte finirà nei manuali di politica come esempio di ciò a cui porta la scaltrezza e l’accecamento del potere sullo sfondo di istituzioni deboli. Gli equivoci, gli errori, gli scaricabarile e persino ciò che ha funzionato: niente nella vicenda del manager che fu commissario si comprende senza inserire nell’equazione la psicologia dei protagonisti e il contesto del Paese. La cui debolezza, del resto, è conclamata.
Quando un anno fa esplode Covid-19, la Protezione civile può contare su un patrimonio di conoscenza nel gestire le sciagure che conosce: terremoti, inondazioni, cedimenti idrogeologici. Non una pandemia, allora fuori dai radar della struttura. Succede così che nei magazzini della Protezione civile manchino persino le mascherine, e poco importa se nel mondo in questi anni le aggressioni virali si sono susseguite: Sars, suina, aviaria, Ebola. Ci si poteva pensare, non lo si è fatto.
Arcuri entra in scena allora. A metà marzo 2020 Conte, a capo del suo secondo governo, nomina questo manager da sempre vicino alla tradizione del Pd per riempire i vuoti nella cintura di trasmissione dalla politica alla burocrazia. Arcuri è di Melito di Porto Salvo, 57 anni, formato dalla scuola militare della Nunziatella prima di una carriera nell’Iri, quindi a Deloitte, infine di nuovo nell’impresa pubblica con Invitalia. A lui Conte chiede di fare il «commissario straordinario» per «l’attuazione e il coordinamento» di tutto ciò che è urgente fare — soprattutto, reperire — contro Covid. E beato quel popolo che non ha bisogno di commissari. Perché Arcuri è lì per saltare le labirintiche procedure dello Stato, procurarsi al più presto mascherine o respiratori e organizzarne una produzione nazionale. Via via, accadrà lo stesso con tutto ciò che viene chiesto: dai banchi a rotelle alle siringhe, alla gestione dei vaccini forniti da Pfizer, Moderna e AstraZeneca. Per questi ultimi deve anche organizzare una strategia di consegne ed è qui che la frustrazione collettiva diventa massima. Anche la sua, riferisce chi gli ha parlato in queste ore. In base ai piani europei, entro marzo l’Italia avrebbe dovuto ricevere 28,2 milioni di dosi. Invece ne ha due milioni a gennaio, 4,5 a febbraio e spera — senza certezze — in altri sei milioni di fiale questo mese: meno della metà del previsto.
Lui in ogni caso accetta da Conte qualunque incarico e lo fa con un piglio che non denota mai umiltà. Il premier dunque gli affida di tutto, sempre di più. Sembra non fidarsi di nessun altro, quasi che l’Italia non avesse altro talento se non Arcuri. Si instaura così un rapporto ambivalente tra il capo (pugliese) nel suo bunker e il fedelissimo (calabrese) in battaglia. Un legame al limite del cortocircuito istituzionale, anche perché l’intera Protezione civile entra in un cono d’ombra e silenziosamente ribolle. Arcuri intanto scopre che le luci della ribalta non gli sono sgradite, anzi. Crede in se stesso e non si tira mai indietro mai.
Così il gioco, per Conte, è fatto. Rendendo Arcuri il dominus dell’emergenza, il premier ne fa anche il parafulmine per qualunque cosa vada storta. Uno scudo umano per Palazzo Chigi. Del resto lo stesso Arcuri non sembra avvedersi del calice avvelenato che il premier gli sta porgendo o forse sono l’ambizione e la sicurezza di sé a fargli fingere di non vedere il carattere ambiguo del patto con il premier. Lui lui stesso finirà per generare — o non smentire — l’impressione di avere poteri che non ha. In realtà ha un compito importante, ma delimitato: deve comprare prodotti per lo Stato, e distribuirli. In molti però iniziano a pensare che sia lui a gestire la pandemia. Dunque se qualche farmacista specula sulle mascherine in primavera o se le scuole chiudono in autunno, diventa colpa sua. E Conte sfida la gravità nei sondaggi.
Certo, di errori Arcuri ne commette eccome. Come documenta il Corriere il 31 gennaio, in settembre fa comprare per cento milioni di euro mascherine a prezzi elevati da un’impresa a controllo cinese incorporata in Olanda. E una lista di aziende fornitrici di macchinari da terapia intensiva viene pubblicata, con ritardo, solo in novembre. Nel complesso però è difficile sostenere che la performance dell’Italia nel procurarsi i beni necessari all’emergenza sia peggiore rispetto al resto d’Europa. E l’equivoco contiano funziona, senza che Arcuri lo sveli. Così se le scuole restano chiuse, in molti dicono che è colpa dei «banchi a rotelle» del commissario (che ha solo comprato su richiesta). Non - come è il caso in realtà - degli enti locali che rifiutano di affittare i bus privati per non farli entrare nel mercato delle imprese da loro controllate o per la resistenza dei sindacati della scuola agli orari scaglionati. E se ancora in tanti restano oggi senza vaccino, diventa facile dire che è colpa delle «primule» (una costosa trovata di Arcuri, questa sì, di cui si sarebbe fatto facilmente a meno). E non del solito consociativismo italiano che porta a distribuire le poche dosi disponibili fra ordini professionali, amici degli amici e varie categorie non esposte, mentre milioni di anziani aspettano. Toccava al governo e alle regioni vigilare, ma non è stato fatto. Prima di lasciare il commissario ha condiviso un piano che prevede la mobilitazione per i vaccini di almeno 20 mila medici di base, con aumento della capacità di somministrazione a 350 mila dosi al giorno entro giugno e a mezzo milione a settembre. Ma molto meglio una bella polemica sulle «primule». Del resto è Arcuri che ha scelto di danzare al ritmo di Conte. E con Conte, alla fine, è inciampato.
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Niccolò Carratelli, La Stampa
Gli mancavano 17 giorni per festeggiare un anno da super Commissario. Ma, ormai, Domenico Arcuri aveva capito che non avrebbe toccato quel traguardo. A chi gli chiedeva una previsione, sulle intenzioni di Draghi, citava il romanzo di Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata. Uscito da palazzo Chigi, spogliato della sua carica, si è limitato a una nota istituzionale: «Sono riconoscente a chi mi ha dato la possibilità di occuparmi della più grande emergenza che la storia recente ricordi. Sono onorato di aver potuto servire il mio Paese in una stagione così drammatica». Era il 17 marzo 2020 quando Giuseppe Conte firmava il decreto per affidargli «l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19». Con il passare dei mesi, questo ha significato occuparsi praticamente di tutte le questioni più delicate e urgenti legate alla pandemia. A cominciare dal reperimento sul mercato di mascherine, guanti e dispositivi di protezione, poi le attrezzature per le terapie intensive, i banchi monoposto e a rotelle per le scuole. E ancora la scommessa fallita della app Immuni, fino all’imponente partita dei vaccini: i contratti con le aziende farmaceutiche, la logistica delle forniture, le polemiche sulle siringhe, l’organizzazione della campagna sul territorio, con i padiglioni a forma di primula, appassiti in fretta. Un anno impegnativo, insomma, anche per un manager pubblico con il pelo sullo stomaco, da 13 anni alla guida di Invitalia, impermeabile ai ripetuti cambi di governo. Quando Conte lo ha chiamato, gli ha offerto (a lui sì) i pieni poteri, anche in deroga alle norme, come previsto dal decreto Cura Italia: «Tutti gli atti sono sottratti al controllo della Corte dei Conti. Per gli stessi atti la responsabilità contabile e amministrativa è limitata ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo».
La corsa alle mascherine
Uno "scudo" con cui Arcuri ha affrontato la prima sfida, in pieno lockdown: comprare milioni di mascherine da chiunque potesse venderne, in attesa di avviare una produzione a livello nazionale. Ha aperto mille canali, decine di commesse, sbloccato partite alla dogana, semplificato i criteri di validazione, e finalmente ha fatto arrivare le mascherine chirurgiche, e poi quelle Ffp2, con tanto di braccio di ferro con i farmacisti. La mascherina al prezzo politico di 50 centesimi è stato il primo risultato che Arcuri ha potuto vantare. Ma il prezzo pagato da lui, per procurarsi le mascherine, lo ha fatto finire sotto inchiesta: la procura di Roma indaga, in particolare, sugli affidamenti, per un valore complessivo di 1,25 miliardi di euro, effettuati a favore di tre consorzi cinesi per l’acquisito di oltre 800 milioni di mascherine. Acquistate a prezzi eccessivi rispetto ai valori di mercato, con ottimi affari per i mediatori che avevano contattato la struttura commissariale. Arcuri è stato indagato, ma i magistrati hanno già chiesto la sua archiviazione e lui si dichiara "parte lesa" in questa vicenda, che certo non lo ha aiutato a essere riconfermato. Nel corso dei mesi il Commissario ha firmato decine di ordinanze e gestito qualunque cosa: l’acquisto di respiratori polmonari, il monitoraggio dei posti letto, i milioni di tamponi (e i relativi reagenti) messi a disposizione delle Regioni.
Da Immuni ai banchi a rotelle
Ha puntato senza successo sulla app Immuni, che doveva servire al tracciamento dei contagi, ma è stata scaricata e attivata solo da una minoranza degli italiani: 10 milioni di persone, che hanno permesso di scoprire appena 12.645 casi di positività. Poi, in estate, si è lanciato nel discusso acquisto dei banchi monoposto e innovativi, cioè con le rotelle. Non è stata una sua idea, ma questo non gli ha risparmiato le critiche, anche perché per diverse settimane c’è stato mistero sia sulle aziende vincitrici della gara che sui contratti. Alla fine due milioni e mezzo di pezzi comprati, per una spesa di oltre 300 milioni di euro (270 euro per ogni banco innovativo), consegnati a ottobre, poco prima che le scuole tornassero alla didattica a distanza a causa della seconda ondata del virus. Quasi nessuno li ha ancora usati, ma, se non altro, resteranno negli istituti, una volta che la pandemia sarà finita. Li abbiamo dimenticati in fretta, perché dall’autunno ci siamo concentrati su un solo obiettivo: i vaccini.
Vaccini e primule
È cronaca degli ultimi mesi: i contratti sottoscritti dalla Commissione europea su cui Arcuri, in privato, non ha nascosto i suoi dubbi, sottolineando «gli errori della von der Leyen». E ancora gli accordi sulle forniture con le aziende farmaceutiche, puntualmente disattesi nell’impotenza del Commissario. A dicembre ci avevano promesso 28 milioni di dosi nel primo trimestre, manca un mese e andrà bene se ne arriverà la metà. Le polemiche sulle consegne dei vaccini hanno fatto il paio con quelle sull’acquisto delle siringhe di precisione: 157 milioni di luer lock, pagate fino a sei volte di più di quelle normali, perché si pensava fossero necessarie per estrarre 6 dosi invece di 5 da ogni fiala del siero Pfizer. Poi si è scoperto che non è così. L’ultima salita, per Arcuri, è stato il piano vaccinale, l’organizzazione della campagna sul territorio: la difficoltà a districarsi tra le varie gestioni regionali, le incertezze sui luoghi per la somministrazione di massa. Il Commissario ha capito l’antifona ascoltando Draghi nel suo discorso in Parlamento, quando il premier ha detto che le vaccinazioni vanno fatte sfruttando strutture già esistenti, senza perdere tempo a crearne di nuove. Una bocciatura secca dei padiglioni a forma di primula. Dovevano essere 1200, poi ridimensionati a 21, sarebbero costati oltre 400 mila euro l’uno. Sfioriti rapidamente, come il potere di Arcuri. Il quale negli ultimi tempi, guardando a questa campagna vaccinale balbettante, si è lasciato andare a un pronostico suggestivo: «Vedrete che alla fine ci salverà lo Sputnik russo». Segniamocelo.