la Repubblica, 2 marzo 2021
La moda va in teatro
Un tempo era considerato punk occupare un luogo pubblico e chiuderlo, adesso è l’esatto contrario: con i teatri chiusi ormai da un anno, la scelta di Valentino di riaprire il Piccolo Teatro ha un che di ribelle. Un bel modo per celebrare Milano, città in cui Pierpaolo Piccioli ha scelto di presentare le sue collezioni prêt-à-porter per la seconda volta, invece che a Parigi, in diretta streaming «Per non perdere forza e immediatezza», spiega lui. La sfilata è lucida (nel senso di mirata), secca, concisa. Un po’ come nell’immaginario comune è vista Milano, viene da dire, ma per lo stilista la questione è un’altra. «Questo è un taglio netto, un modo per ripartire da zero». Il taglio di cui parla è sia metaforico, con i colori ridotti a bianco, nero e a due uscite di numero dorate, che reale: gonne, vestiti e pantaloni sono scorciati all’inverosimile. Quasi scompaiono sotto le giacche da donne forti e potenti. «Ho cercato spazi nuovi attraverso il vuoto, un po’ come Lucio Fontana con i suoi tagli. Partendo dall’idea finale ho proceduto per sottrazione: anche i vestiti da sera sono in un solo pannello di chiffon». La mente va per forza alla collezione Bianca del 1968, con cui Valentino Garavani annullò lo status quo tutto fiori, colori e ricami. «Entrambe nascono per fare piazza pulita e ricominciare, ma non credo che ricalcare il passato serva. Servono atti più sovversivi, anche nella moda».
“Milano is alive”, Milano è viva. Inizia così il brano di Gea Politi che fa da colonna sonora al video di Msgm, ma in realtà il fondatore del brand, Massimo Giorgetti, ha sempre creduto nella forza della città. Come Valentino, anche lui sceglie di presentare la sua moda riaprendo un teatro, il Manzoni, in pieno centro; il corto di Francesco Coppola ha per protagoniste quindici milanesi, di nascita e d’adozione. «Ho fatto scegliere loro cosa indossare: nessuna ha voluto tacchi o ruches, solo pezzi elastici come una seconda pelle e comodi. Molto istruttivo», dice lui. Dunque, sullo schermo questo si vede: colori saturi, linee essenziali, le opere dell’artista Alessandro Calabrese come unico decoro. Ma il pensiero torna al teatro in cui si svolge l’azione. «Non possiamo abituarci a vedere certi luoghi chiusi, abbandonati: dobbiamo rimanere positivi».
È dal 1984 che Domenico Dolce e Stefano Gabbana sperimentano con la moda, e nel farlo sono diventati un pilastro dello stile milanese. Allora erano i cappotti di spugna, ora sono il raso tinto come una Ferrari, la lana tessuta col cellophane, i jeans stampati in 3D. Se perciò è vero che dai loro esordi sono passati 37 anni, è evidente che lo spirito sia rimasto lo stesso; a simboleggiare la voglia di nuovo stavolta ci sono gli automi dell’Istituto Italiano di Tecnologia, che hanno sfilato con le modelle nello show digitale. «Sono mondi vicini», ragionano i due. «Che si tratti di vestiti o Intelligenza Artificiale, tutto inizia con il genio umano». I look ispirati ai robot sono diversi, tra armature alla Gundam, ologrammi e bagliori metallici. Offrono un bel contrasto con quelli più legati al passato del brand: il body di strass del 1991, le giacche con le spalle da rugby degli anni Ottanta, i completi in rete di cristalli del 1995. Il messaggio è preciso: «Ciascuno è libero di mettere ciò che vuole, che sia un piumino riempito di polistirolo o un tubino di perle enormi». Facile a dirsi, meno a farsi: bisogna seguire i più giovani. «A loro interessa esprimersi, l’opinione altrui non li riguarda. Alle prove una modella ha voluto aprire tutte le zip del suo vestito, per mostrare i suoi tatuaggi: non per esibirli, ma perché ne era orgogliosa. Questo è lo spirito».
In attesa di riaprire i musei, da Giada Gabriele Colangelo si è fatto la mostra da sé, chiedendo a Paolo Roversi di fotografare la collezione, ed esponendo le immagini in negozio. La collezione del marchio di lusso cinese tutto prodotto in Italia prende spunto dagli alberi: le venature delle cortecce solcano il cashmere zibellinato, le radici sono riprodotte nell’organza filata con il mohair e la lana, i toni del legno compongono la palette. Dominano le cappe e le stole che abbracciano, confortanti, le spalle. È consolatoria anche la collezione di Ports 1961: qui l’abbigliamento da casa è tradotto in maglie, cappotti e gonne che non sono per nulla casual. Un gradito cambio di passo.
Milano è anche una fucina di nuove realtà: con coerenza e costanza, Sunnei si è creato una nicchia precisa nel mercato. La sua moda, dalle forme e combinazioni azzardate, non è per molti, ma è efficace. Tutt’altra immagine quella di Blazé Milano, che però segue un percorso affine: stagione dopo stagione, un modello eccellente di blazer dopo l’altro, il brand ora offre uno stile completo, concreto e desiderabile.