il Giornale, 1 marzo 2021
I 90 anni di Gorbaciov
Quando compì ottant’anni, un decennio fa, Mikhail Gorbaciov fu festeggiato come un re al Royal Albert Hall. A Londra, naturalmente, perché è difficile trovare nel mondo qualcuno a cui il detto «nemo propheta in patria» si attagli di più: era amato solo in quell’Occidente che liberò dall’incubo della guerra fredda. Domani ne compirà novanta, e siccome per ragioni di salute è ormai confinato a Mosca, festeggerà a casa sua con i parenti, ignorato dai suoi connazionali che non gli hanno perdonato di esser stato all’origine secondo loro della fine dell’Unione Sovietica.
Proprio così: Gorbaciov è oggi un protagonista dimenticato della storia mondiale, un eroe nobile e sfortunato per molti soprattutto in Occidente, la causa prima della decadenza di una grande potenza per la gran maggioranza dei russi. In chi ha vissuto e seguito i sette anni scarsi della sua leadership (marzo 1985 dicembre 1991) il ricordo della straordinaria rapidità dei cambiamenti che impose all’Unione Sovietica rimane nitidissimo. Quel che impressiona è la persistente difficoltà, soprattutto nella nostra sinistra tuttora segnata dall’eredità culturale comunista, a inquadrare il personaggio per ciò che realmente è stato: il riformatore fallito di un sistema irriformabile.
A trent’anni dalla sua fine politica, con l’ingloriosa cessione dei poteri al suo energico rivale Boris Eltsin e la fine inaudita della stessa Urss, resiste soprattutto in Italia l’immagine agiografica del Gorbaciov riformista, dell’uomo a cui dobbiamo la pace europea grazie alla sua disponibilità a trattare con lo storico nemico americano. Se insomma oggi l’Europa non è più almeno in apparenza il potenziale teatro di una catastrofica guerra atomica tra le due superpotenze rivali lo dovremmo a lui, che seppe superare la visione arteriosclerotica dei Breznev, degli Andropov e da ultimo del simbolico rottame umano Chernenko e offrire del suo Paese un’inedita immagine rivolta al futuro e non al passato, e soprattutto aperta al dialogo costruttivo con il nostro mondo. Un uomo allora quasi giovane (nell’85 aveva 54 anni) e capace addirittura di sorridere, sempre accompagnato da una moglie bella e raffinata, l’indimenticata Raissa Gorbaciova.
In realtà, Mikhail Gorbaciov incarnò a modo suo le contraddizioni della fase finale dell’Unione Sovietica. Era consapevole della sua decadenza, ma non la attribuiva agli errori di fondo insiti nell’ideologia marxista-leninista, bensì a una cattiva gestione del vangelo rosso. Come ben scrisse lo storico russo Dmitry Volkogonov, Gorbaciov fu pur sempre «il settimo e ultimo segretario generale del partito comunista sovietico» e non intendeva seppellire l’Urss. Egli credeva nella missione storica di quella creatura di Lenin e si era posto l’obiettivo ambizioso di salvarla riformandola. A tal punto era convinto della superiorità del «sistema socialista» che quando meritoriamente introdusse la scioccante novità di ammettere alle elezioni anche candidati alternativi a quelli del Pcus non dubitava che i comunisti avrebbero sempre e comunque trionfato. Voleva che questo accadesse per consenso, e non più per costrizione come fino ad allora era accaduto: in questo l’ideologia, e in fondo la sua limitatezza culturale, lo accecavano. E così, mentre la sua azione all’estero conduceva alla pace con l’Occidente e alla fine di un impero costruito sulla menzogna di un’amicizia inesistente con «alleati» soggiogati a forza, all’interno erano le sue stesse parole d’ordine riformiste (le celebri perestrojka e glasnost, rinnovamento e trasparenza) a produrre le contraddizioni che avrebbero infine fatto crollare il gigantesco edificio sovietico.
Oggi sulla memoria di Gorbaciov, ancora vivente ma come fossilizzato in un Paese che non è più il suo, viene attuata una rimozione parziale del dato oggettivo: si preferisce ricordare un po’ come la sinistra postcomunista italiana fa con Enrico Berlinguer la parte riformista del suo messaggio e del suo agire politico, stendendo un generoso oblio sulle sue contraddizioni. Perché proprio come Berlinguer, scomparso nel 1984, finché fu al timone Gorbaciov non volle mai abbracciare la socialdemocrazia e non pensò mai a un genuino sistema pluralista per il suo Paese ideale, preferendo illudersi in un consenso reale e perpetuo delle «masse» alla giusta linea del Partito: la sua.
Sopravvissuto alla sua epoca, Gorbaciov ha subito una sorta di damnatio memoriae. Rientrato a Mosca dalla Crimea nell’agosto del ’91 dopo il misterioso fallito colpo di Stato ai suoi danni, fu umiliato in pubblico da Eltsin e dovette scendere tutti i gradini della sua fine politica fino allo storico 25 dicembre in cui annunciò la morte dell’Urss e si dimise. Nei trent’anni successivi, non ha fatto che scendere altri gradini, disprezzato in patria come il liquidatore della grande potenza nazionale e senza che nessuno gli riconosca di aver avviato la fine di un regime liberticida. Solo in Occidente qualcuno lo ama ancora: ma non per ciò che davvero è stato.