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 2021  marzo 01 Lunedì calendario

Intervista a Enrico Prati. Parla dei super computer che fanno gola alla Nasa

L’intelligenza artificiale è già una realtà consolidata, ormai la teniamo in tasca, nel nostro smartphone e i campi di applicazione sono in costante aumento. Ma all’orizzonte c’è già una nuova era, quella dell’IA applicata ai Quantum computer, i cui risvolti applicativi sono innumerevoli e solo parzialmente prevedibili. La Nasa, recentemente, ha iniziato una serie di sperimentazioni i cui risultati sono stati superati dal gruppo di ricerca dell’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Cnr di Milano, coordinato da Enrico Prati che, insieme al ricercatore Lorenzo Rocutto e a Claudio Destri dell’Università Milano Bicocca, ha sviluppato un nuovo modello di intelligenza artificiale superando la velocità di apprendimento dell’ente aerospaziale americano.
Siamo nell’era primitiva dell’intelligenza artificiale quantistica?
«Il primo tra tutti ad occuparsene è stato Google, ma nel mondo siamo una comunità ristretta, si pensi che alla Ieee Quantum Week dello scorso ottobre i contributi del Cnr erano gli unici non americani. Compatibilmente con le capacità dell’hardware che anno dopo anno stanno progredendo, si cerca di trovare nuovi algoritmi e applicazioni con cui fare sperimentazione. Per quanto riguarda il nostro progetto, abbiamo adattato un algoritmo già noto – usato nel 2009 dai vincitori del Netflix Prize per raccomandare film e serie tv – alle caratteristiche del nuovo hardware quantistico».
Perché avete scelto l’algoritmo Netflix?
«È stata una scelta naturale per le caratteristiche dell’hardware che abbiamo utilizzato, poiché possiede proprietà che si adattano molto bene a quell’algoritmo, tra l’altro era già stato sperimentato dalla Nasa e noi abbiamo cercato di farlo evolvere per migliorarne l’efficienza».
Se lo aveva già usato la Nasa, parliamo di applicazioni di altissimo profilo tecnologico?
«L’hanno implementato, non tanto per usarlo, perché le performance hardware che erano possibili non consentivano ancora di risolvere problematiche reali con una maggiore efficienza rispetto al metodo computazionale tradizionale. Il punto è che nel momento in cui si osserva il funzionamento di un algoritmo, quando si avrà a disposizione un hardware sufficientemente potente, l’implementazione non soffrirà della richiesta esponenziale di risorse quantistiche, perché si verificherà il cosiddetto Quantum advantage. Alla Nasa hanno fatto un tipo di lavoro in prospettiva, così anche noi, che risolviamo il cosiddetto toy model, cioè un ambiente test».
E con la vostra sperimentazione cosa avete fatto di diverso?
«La Nasa aveva riformulato l’algoritmo Netflix sull’hardware quantistico della D-Wave, un’azienda canadese che nel 2012 ha prodotto il primo quantum computer commerciale. E quello è stato il primo step, ma la loro implementazione aveva delle limitazioni dovute al fatto che in una rete neurale artificiale, la prima idea è stata quella di abbinare un bit quantistico a un neurone artificiale; ma i neuroni sono disposti tutti su un piano, quindi il numero di mutue connessioni è ridotto e questa bassa connettività poneva dei limiti. Noi ci siamo liberati del limite, facendo dei bit quantistici virtuali, cioè collegando tra loro più bit quantistici che si comportano come un solo bit, ma con una connettività sinaptica artificiale molto elevata, perché eredita le connessioni di tutti i qubits che lo compongono, che a sua volta determina una capacità di apprendimento dell’IA più rapida».
Paragonando il metodo di apprendimento dell’IA allo scorrere del tempo, cosa avviene?
«In precedenza, si lasciava che il sistema durante l’apprendimento ricercasse le soluzioni da imparare iniziando da uno stato di partenza generico. In questa ricerca invece il sistema è semantico, cioè parte da una soluzione nota: lo si porta a un migliore stato di partenza, come se si riavvolgesse il nastro del tempo per qualche microsecondo, e poi si procede con la ricerca, che a sua volta dura alcuni microsecondi. Equivale a girare la pellicola all’indietro, per poi riprendere a farla girare in avanti».
Un esempio concreto per semplificare?
«Il primo caso, quello della Nasa, è arrivare a fare goal partendo dal rinvio del portiere. Il secondo caso, il nostro, consiste nel fare un’azione d’attacco partendo dal calcio d’angolo, da cui si torna indietro fino al centro campo e poi si fa goal. Partendo con l’attacco già schierato è più probabile segnare che partendo da fondo campo».
Sembra una procedura che impiega più tempo rispetto ad un’azione lineare.
«Può richiedere più tempo, ma se i risultati consentono di avere un apprendimento più veloce, significa che seguire questa procedura consente di avere una probabilità più alta di fare goal, perché ciò che conta è la soluzione. Direi che ci vuole più tempo, ma si possono fare più goal».
Abbiamo citato la Nasa. Questa tecnologia sarà la chiave di volta per le esplorazioni dei pianeti e di quali altre applicazioni?
«Sì, c’è una forte connessione tra la ricerca sui quantum computer e le tecnologie per lo spazio, però bisogna considerare il computer quantistico come uno strumento tecnologico di utilizzo generale come avvenne con i primi computer tradizionali; solo successivamente si capì che potevano essere applicati a realtà imprevedibili come quella che portò alla creazione di Internet. Nei prossimi decenni avrà applicazioni in medicina, meteorologia, sicurezza, aerospazio, ma molti sviluppi ad oggi sono sconosciuti».
In futuro il suo gruppo di ricerca di cosa si occuperà?
«In questo momento stiamo usando quattro tipologie di hardware quantistico, Ibm Quantum Experience, D-Wave, Rigetti e IonQ, mediante la piattaforma di Amazon Braket e ne useremo altri ancora per continuare a sperimentare queste tecnologie, compararne i risultati, per comprendere i loro limiti di funzionamento e migliorarli, ove possibile, con l’intelligenza artificiale».