La Stampa, 1 marzo 2021
Jun Ichikawa, una giapponese a Roma
Tutto nasce dall’amore per la lirica, una passione talmente forte da spingere il padre di Jun Ichikawa a trasferirsi in Italia per studiare al «Conservatorio di Santa Cecilia», diplomarsi, e diventare tenore: «Sono arrivata qui per la prima volta a 8 anni, i miei genitori, entrambi giapponesi, si sono conosciuti a Roma, mia madre aveva studiato all’Università della musica di Tokyo, si sono innamorati e poi, sull’onda del bel canto, hanno deciso di mettere su famiglia in Italia. Per me, all’inizio, è stato un trauma micidiale, ero piccola, ma non abbastanza da non risentire del cambiamento e di tutte le difficoltà dell’integrazione». Adesso, per Jun Ichikawa, nata a Kumamoto nell’82, esordiente diretta da Ermanno Olmi in Cantando dietro i paraventi (nel 2003), le cose sono cambiate: «Mi sento fiduciosa, oggi la multiculturalità è più diffusa, anche se nel cinema c’è ancora tanta paura. I registi disposti a inserire nelle loro storie personaggi non canonici incontrano resistenze e fanno fatica a vincerle». In Addio al nubilato, regia di Francesco Apolloni (su Amazon Prime Video) Ichikawa è Akiko e fa parte di un gruppo di coetanee unite per festeggiare il matrimonio di un’amica: «Il mio personaggio doveva essere italiano, ero certa che non sarei mai riuscita a ottenere la parte. Se non fosse stato per il regista, che si è imposto e mi ha voluto al provino, il ruolo non sarebbe andato a me».
Fin dai tempi della scuola Akiko ha fatto i conti con il marchio di giapponese e quindi con un alone di diversità. Quali sono state, nella sua vita italiana, le maggiori difficoltà?
«Gli eventi del film si avvicinano a quelli che ho vissuto nella realtà, alcuni episodi sono stati aggiunti dal regista in base alla mia esperienza diretta. La prima difficoltà è la lingua, finché non la conosci bene, senti di non essere accettato. I bambini possono essere molto cattivi, magari perché non hanno gli strumenti per affrontare qualcosa che non conoscono. Il liceo è stato ancora più duro, l’adolescenza è complicata, anche se io, a 13 anni, avevo già iniziato a interessarmi di teatro».
Come ne è venuta fuori?
«Il merito è della mia compagna di banco, la prima amica del cuore. Avevo 16 anni, lei continuava a vedermi mogia, un giorno mi ha piazzato un libro sotto il naso, mi ha detto "animo, inizia a leggere, così impari bene la lingua e non hai più scuse per sentirti a disagio". Quel suo modo sfacciato mi ha scosso, da allora in poi le barriere sono cadute».
Ha debuttato con Olmi, come è stato il primo incontro?
«Era luglio, faceva un caldo micidiale, avevo appena fatto un provino con una giacca a vento gialla in testa che avrebbe dovuto essere un velo nero... Olmi è arrivato subito dopo, mi ha chiesto se fossi fidanzata e se mi piacesse dominare oppure essere dominata. Ho pensato si trattasse di una domanda trabocchetto, ho risposto che mi piacevano tutte e due le cose. Mi ha detto "brava", qualche giorno dopo ho saputo di essere stata scelta».
Ha lavorato con Dario Argento nella «Terza madre». Come è andata?
«Argento è mitico, raramente ho visto un regista lavorare con tanta passione e tanta cura dei dettagli. E’ un regista stimolante, il suo modo di raccontare mi ha ispirato. E poi mi diverte recitare nei film horror, l’unico problema è che ho una paura pazzesca di vederli».
Se dovesse indicare la differenza più grande tra la cultura italiana e quella giapponese, che cosa direbbe?
«Direi che è la qualità del silenzio. Quello giapponese è disarmante, ma anche rilassante, indica rispetto del prossimo e si osserva sempre, non solo nei templi. In Italia lo vivi di rado, forse solo in chiesa».
I giapponesi indossavano mascherine da sempre, anche quando il Covid non c’era. E sono stati presi molto in giro. Che ne pensa?
«In Giappone la mascherina si usa per proteggere gli altri, è un’ulteriore forma di rispetto, fa parte di un atteggiamento generale. Da noi si dice "leggere l’aria", vuol dire sforzarsi di capire il contesto in cui viviamo e di dare al prossimo lo spazio per agire. In Italia si tende, invece, ad affermare la propria identità, anche se, magari, non è il momento giusto per farlo».