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 2021  marzo 01 Lunedì calendario

Andy Rocchelli, un’ingiustizia lunga sette anni

Il 24 maggio del 2014, il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli, detto Andy, viene ucciso, mentre si trovava nella regione del Donbass, nell’Ucraina orientale. Era impegnato a documentare le condizioni dei civili, prime vittime dello scontro che opponeva i militari fedeli allo Stato ucraino e i ribelli filorussi.
Insieme a lui, c’erano l’interprete e attivista per i diritti umani, il russo Andrej Mironov, anche lui ucciso, il fotoreporter francese William Roguelon, rimasto gravemente ferito, e un autista locale.
Il 12 luglio del 2019 la Corte di Assise di Pavia condanna a 24 anni l’italo-ucraino Vitaly Markiv per concorso di colpa nell’omicidio di Andy Rocchelli. Il 3 novembre 2020, la Corte di Appello di Milano assolve Markiv per non aver commesso il fatto. Il 15 febbraio scorso si apprende che la Procura Generale di Milano presenterà ricorso in Cassazione contro la sentenza di secondo grado. Attualmente, dunque, la morte di Rocchelli resta priva di un colpevole, individuato con nome e cognome e condannato a espiare una pena. Di conseguenza, si sente dire, senza esecutori e mandanti, e senza una ricostruzione attendibile dei fatti. Ma le cose non stanno così.
Succede, infatti, che la sentenza di primo grado, che condanna il militare ucraino, e quella di secondo, che lo assolve, poggiano sulla medesima interpretazione della vicenda. In effetti, nelle motivazioni della sentenza di appello, si afferma che «la ricostruzione dei fatti, così come emerge dalle prove processualmente utilizzabili e dalle considerazioni svolte porta questa Corte a concordare con le conclusioni della Corte d’Assise di Pavia, in merito alla provenienza dei colpi che hanno ucciso Rocchelli e ferito Roguelon e cioè dei colpi di mortaio sparati dalla collina Karachun ad opera dei militari dell’armata ucraina, dove erano nascosti i fotoreporter, il tassista e il civile». Si legge ancora nelle motivazioni della sentenza che «essi erano quindi lì per svolgere la loro attività di fotoreporter . L’attacco ha avuto luogo senza alcuna provocazione e offensiva, né da parte loro né dei filorussi». In particolare, la Corte di secondo grado ritiene che esistesse «l’intenzione di eliminare» il gruppo di giornalisti, perché per difendere quella postazione si faceva sì che «nella zona circostante nel raggio di uno o due chilometri nessuno potesse avvicinarsi». La postazione in questione era costituita dalla collina dove si trovava installata un’antenna televisiva, considerata un bene prezioso dalla guardia nazionale ucraina. Perciò, se da un lato i giudici dicono che i fotoreporter si trovavano in una zona calda «sulla linea di tiro tra uno schieramento e l’altro», allo stesso tempo precisano che «i giornalisti di guerra raggiungono proprio le linee del fronte per constatare e poi raccontare e informare l’opinione pubblica su ciò che avviene durante i conflitti bellici». In conclusione, quindi, l’ordine di sparare fu «illegittimamente dato dai comandanti, perché in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili, ed eseguito dai militari della guardia nazionale e dall’esercito appostati sulla collina». Tuttavia, l’aver accertato la dinamica della tragedia e l’aver raccolto prove sulle responsabilità di Vitaly Markiv, non sono fatti sufficienti a determinarne la condanna: i superiori e i commilitoni dell’imputato avrebbero dovuto essere ascoltati in procedimento connesso e, dunque, con l’assistenza di un legale. In assenza di questo, quelle dichiarazioni non sono state considerate utilizzabili. E non si è potuto provare «al di là di ogni ragionevole dubbio» che Markiv si trovasse in quel posto e a quell’ora, e che indirizzasse l’attività del mortaio contro il gruppo di reporter.
Quindi, dalla combinazione delle due sentenze, quella di primo e quella di secondo grado, emerge un dato davvero frustrante. Lo dico come cittadino che ha seguito la vicenda con la massima attenzione possibile, e che trova doloroso immaginare come un simile sentimento possa tradursi nella condizione emotiva dei familiari di Rocchelli. La sua storia ha evidenziato, ancora una volta, quale possa essere il ruolo dei parenti di una vittima, qualora decidano di rendere questione pubblica la propria sofferenza e farne motivo di un’azione civile, oltre che giudiziaria, per raggiungere verità e giustizia.
Una storia, quella del fotoreporter pavese, che sarebbe stata consegnata all’oblio e al silenzio, senza l’impegno di quella madre e di quel padre, che si sono fatti amorosi detective e tenaci investigatori, che si sono recati nei luoghi della morte del figlio, che hanno parlato con testimoni riluttanti, che hanno raccolto atti e documenti, che hanno interloquito con inquirenti e procuratori, e che mai si sono rassegnati a una verità di Stato (e di quello Stato ucraino). E accanto a loro, gli avvocati Alessandra Ballerini, Emanuele Tambuscio, Giuliano Pisapia, Margherita Pisapia, Pierluigi Tizzoni e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana e le associazioni dei fotoreporter, che hanno promosso la mobilitazione di tanti cittadini. D’altra parte, si deve all’attività di alcuni magistrati particolarmente competenti e al ROS dei carabinieri di Milano, se è stato possibile documentare lo scenario in cui si è consumato il dramma di Rocchelli, Mironov e Roguelon.
Ora, quei genitori, quella moglie, quella sorella di Andy, sanno, sulla base di acquisizioni giudiziarie confermate da due sentenze, come si sono svolti i fatti. Conoscono il contesto, i protagonisti e le comparse, il clima e l’atmosfera, le fasi precedenti e quelle successive. Ma non sanno il nome del colpevole. Ne hanno individuato la divisa, il reparto di appartenenza, l’ideologia, i camerati e i protettori. Ma una sentenza di un tribunale di uno Stato di diritto ha assolto colui che veniva ritenuto l’assassino. Le regole di quello stesso stato di diritto impongono di rispettare la sentenza. E così hanno fatto, esemplarmente, i familiari di Andy Rocchelli. Resta l’amarezza, la terribile amarezza, per quella che non può non suonare come una ingiustizia. Il nostro Stato democratico riconosce l’innocenza di colui di cui non si è potuta provare la colpevolezza. Lo Stato ucraino, segnato da tentazioni autoritarie e pulsioni populiste, attraverso i suoi apparati e i suoi rappresentanti politico-istituzionali, ha fatto di tutto per occultare le prove che potessero portare all’individuazione del responsabile della morte di un fotografo inerme.
Si parla molto di Europa in questi giorni - anzi, se ne parla sempre più spesso - e tutti rischiamo di oscillare tra disillusione e retorica. Per sottrarci all’una e all’altra, la politica dovrebbe operare affinché l’Europa sia davvero lo spazio comune delle libertà e dei diritti. Ma la politica, in questa vicenda, è stata completamente assente. E l’Europa non è stata in grado di ottenere dallo Stato ucraino, considerato un interlocutore speciale, il rispetto dei diritti fondamentali della persona e di quelle garanzie, previste dalle convenzioni internazionali, a tutela dei civili e, tra essi, giornalisti e fotografi, in occasione di scontri a fuoco. Da qui si dovrebbe ripartire, ricordando alcuni nomi e alcune età: Valeria Solesin, 28 anni, vittima dell’attentato al Bataclan di Parigi del 14 novembre 2015, Giulio Regeni, 28 anni, ucciso al Cairo nel febbraio del 2016, Antonio Megalizzi, 29 anni, morto a seguito dell’attentato a Strasburgo dell’11 dicembre 2018. E tanti altri, coetanei di Andy e di una magnifica generazione di giovani europei, che non volevano morire, ma che a tutti costi volevano vivere, assumendone il rischio.