Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  febbraio 28 Domenica calendario

Gianmarco Tamberi ha distrutto i suoi riti

ezza barba, senza barba, con la barba: Gianmarco Tamberi abbandona ogni punto di riferimento, anche le più intime scaramanzie e libero dalla coperta di Linus si mette a volare. Ora salta fuori dagli schemi e la libertà che si è preso gli dà una certa leggerezza anche se gli toglie la bussola.
In questa stagione, appena iniziata, è arrivato a quota 2,35, nella vita è salito più in alto: a 2,39, record italiano, ma dall’infortunio del 2016 non è più tornato su certe misure, non è più stato lui. E non lo è neanche ora perché ha smesso di provare a riprendere da dove era rimasto: è andato avanti.
«Halfshave», era un marchio di fabbrica. Che cosa è successo?
«Resta il mio soprannome e il mio gioco, ma non è più detto che a ogni sfida io mi presenti con un pezzo di faccia rasato e l’altro no. Ho distrutto i riti».
Perché?
«Non ero dove volevo essere e quando le cose non vanno bisogna cambiare, non ci è ho riflettuto: è successo. Alla prima gara dell’anno stavo per uscire dalla competizione a 2,16, una miseria. Ero contro un muro e se avessi iniziato davvero così non so proprio come sarei andato avanti. Mi sono detto "forza, non aggrapparti alla concentrazione butta tutta la potenza che hai". Ed è andata».
Il famoso cuore oltre l’ostacolo?
«Sì. La tecnica serve e non è al top, ci sto lavorando, però mi ero incaponito a cercare il salto che fu, quello che mi aveva portato al massimo: tentavo di riprodurlo in ogni dettaglio e sfuggiva sempre. Così davanti a un punto di non ritorno ho stravolto l’approccio e poi sono andato avanti a demolire».
Che cosa?
«Ogni piccola abitudine. Da anni prima di un evento di peso vado a mangiare le tagliatelle al ragù. Vengo da diete tirate, tutto a puntino, ma c’è quello spazio che ho sempre visto come un ricarico di energia in tutti i sensi. Stesso piatto, stessa trattoria prima della partenza. Non lo faccio più, ma sono davvero tante le innocenti ripetizioni che ho cancellato. Dovevo uscire dalla comfort zone».
Sembrava più una scomodissima rete.
«I riti ti imprigionano ma ti fanno pure sentire tranquillo perché sono la tua routine, casa, sicurezze. Almeno fino a che funzionano. Le Olimpiadi si avvicinavano e io non ero vicino alle Olimpiadi, così ho preso un’altra strada».
E se non fosse andata per il verso giusto?
«Avrei continuato a cambiare».
Il Covid, che ha strapazzato ogni logica, ha una parte in questa visione?
«No. Magari ho fatto saltare la trattoria per non dovermi trovare prima di un appuntamento importante con il locale chiuso e impazzire. Può darsi, anche se in generale la questione è privata. È un’esigenza che mi è scattata dentro, non è una risposta alla precarietà che c’è fuori».
Dopo il 2,35 ai campionati italiani ha pianto di gioia.
«Non subito, sono sceso dal materasso sereno e in quel momento nella mia testa è partito il film. I sacrifici, le delusioni, le notti insonni. Ho passato cinque anni a rincorrere la felicità, uno sfogo era necessario. Lacrime, feste, gioia, tutto insieme».
Ultima notte insonne?
«Non credo finiranno, l’ultima una settimana fa, proprio prima di quel salto. Mi hanno inondato con tante cattiverie inutili, tra l’altro figlie di una situazione totalmente travisata».
Parla dei suoi commenti su Schwazer?
«Io non ho più niente da dire su di lui, ogni mia parola sarebbe male interpretata ma non ho mai commentato i suoi processi o la sua storia, ne ho parlato in un’unica occasione, quando è rientrato in nazionale dopo la prima squalifica, mesi prima del secondo caso di positività oggetto delle discussioni social. Ho solo espresso un mio principio».
Secondo lei chi è stato trovato dopato non deve più rientrare nello sport, giusto?
«Sì, perché lo sport è un valore e lo dico senza avere in testa bersagli o esempi. In assoluto, contesto chi bara per vincere andando contro ogni senso. Se batto Bolt in motorino non sono contento, se invece lo sono c’è qualcosa di profondamente sbagliato».
Chi ha fatto un errore non si può redimere?
«Nella vita sì, lo sport però è altro. Del resto esiste una Carta Etica che noi atleti firmiamo e stabilisce che una sanzione grave per doping comporta l’esclusione dalle convocazioni in azzurro. Se arrivi a pensare che l’unica via per puntare al successo è usare un trucco perché tanto tutti sono compromessi, allora significa che non credi proprio in ciò che fai e non è giusto che tu lo faccia».
Chiaro, ma lei è un personaggio social: davvero ha scoperto solo ora che esistono gli haters?
«Figurarsi, conosco bene la categoria. So di prestarmi agli odiatori: non nascondo un’emozione che una. Stessi zitto a testa bassa, non avrei problemi però non sarei io, così è facile trovare chi mi dà contro. Però qui si è superata ogni umanità, io e la mia famiglia siamo stati investiti da chi ci augurava la morte o peggio. Eppure io ho solo difeso i miei ideali».
Pentito?
«Come capitano della nazionale di atletica sentivo il dovere di fare quel discorso. Non c’è altro da aggiungere».
Le Olimpiadi quest’estate ci saranno?
«Io non posso proprio pensare il contrario, le aspetto da troppo. Ridotto a spettatore in stampelle ai Giochi di Rio, in pausa nel dannato 2020, ora non entra nel mio orizzonte l’ipotesi di un altro stop».
Gli atleti dovrebbero essere vaccinati?
«La situazione è complicata. Di certo sarebbe più facile e sicuro fare le Olimpiadi così, ma è una questione di cui si deve occupare la politica mondiale, non lo sport. Io mi auguro che si arrivi a poter vaccinare gli atleti».
Con una corsia preferenziale?
«Non a tutti i costi, ovvio. Le persone a rischio non vanno sorpassate però forse a un certo punto si potrà trovare lo spazio senza stravolgere i piani. Non lo so, di certo così è difficile. Io non vivo».
Per evitare possibili contagi?
«Vedo mio padre, che mi allena, e la mia fidanzata Chiara con cui vivo. Stop. Chiedo tamponi a ogni rivale, a ogni confronto, evito tutto e tutti».
Se questi Giochi si faranno saranno comunque diversi. Probabilmente senza pubblico.
«Saranno costruiti per la tv e privati dell’atmosfera, ma cullo la speranza di un minima quota di spettatori. Giusto per un "clap", l’estate scorsa saltare dentro l’Olimpico di Roma vuoto è stata una pugnalata».
«Fly or Die». Vola o muori, il suo motto oggi vale anche per l’Italia?
«Purtroppo vale per tutto il mondo, visto come siamo messi».
Draghi volerà?
«Va bene che non ho filtri, ma la politica no, le mie opinioni le tengo per me. Sto a guardare».
Si è complimentato con Larissa Iapichino dopo il record nel salto in lungo. Vede in lei una nuova generazione?
«Vedo il presente dell’atletica ed è un bel vedere».
L’atletica ha anche cambiato presidente, Stefano Mei. Preferisce avere un ex atleta a capo del sistema?
«Sono contento che ci sia lui, ha tante proposte interessanti e voglia di rivoluzionare».
Serve una rivoluzione?
«Sì, l’atletica è antica. Troppe specialità contemporaneamente: dal vivo non si sa dove guardare, in tv non rende. La Nba pensa prima allo spettacolo e poi alla partita, noi siamo rimasti indietro».
Lei è stato un atleta militare e ora gareggia per un club. Si è spesso detto che in Italia fare parte di un’arma è quasi un obbligo.
«Se non sei proprio nell’élite mondiale e da molti anni, è quasi impossibile mantenersi fuori da un gruppo militari. Oggi sono indispensabili, il che vuol dire che c’è un’anomalia. Non può esistere un’unica opzione altrimenti il monopolio definisce l’intero contesto. I gruppi militari sono importanti e tali dovrebbero restare, ma vanno gradualmente introdotte alternative possibili».
Nello sport esiste la parità di genere?
«Nell’atletica sì. Non vedo disparità. Nella vita è ben diverso ed è pure giusto prenderne atto. Basta leggere le statistiche: le donne guadagnano meno, hanno meno incarichi di rilievo, dopo la pandemia sono state la categoria più colpita tra chi ha perso il lavoro. Il dislivello è profondo. Lo sport mostra una società più evoluta, quella a cui puntare».