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 2021  febbraio 28 Domenica calendario

Tartufi, la scienza fa paura al mito

La luna, - disse Nuto, - bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano».
L’uomo guarda a Marte e progetta viaggi per i turisti del cielo, ma con il tartufo bianco d’Alba è ancora fermo alla luna. A quella luna cui, secondo Cesare Pavese, «bisogna crederci per forza». Non sappiamo bene dove nasca, non siamo in grado di coltivarlo e non possiamo neppure riprodurlo. A portarci da lui è ancora il naso di un cane, che di notte guida il suo padrone ai piedi di questo o quell’albero, lontano da occhi indiscreti.
Il profumato mistero di uno strano fungo che cresce sottoterra è ancora intatto, impassibile a ogni evoluzione e saldo su un’unica certezza, quella del palato.
O almeno, così pensavamo fino a quattro giorni fa, quando i francesi ci hanno riportato con i piedi per terra annunciando con la solita enfasi che anche il prezioso tartufo bianco si può coltivare. L’«Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (Inrae)» ha pubblicato sulla rivista scientifica Mycorrhiza il buon esito di una sperimentazione avviata nel 2008 con il vivaio Robin di Saint-Laurent-du-Cros, comune della regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Dopo 9 anni di ricerca congiunta, i vivaisti sarebbero riusciti a ottenere risultati incoraggianti da alcune piante di roverella le cui radici sono legate in simbiosi al micelio di tuber magnatum pico, nome scientifico del diamante che da sempre delizia i buongustai.
Messe a dimora le roverelle micorrizate in quattro tartufaie posizionate in tre regioni con climi assai diversi - il Rodano-Alpi, la Borgogna-Franca Contea e la Nuova Aquitania, nessuna delle quali a vocazione tartufigena - sono arrivati i primi frutti: nel 2019 nella tartufaia della Nuova Aquitania sono stati raccolti tre tartufi, nel 2020 altri quattro. Direte: sette pepite in due anni non sono molte. E chissà se sono almeno profumate. Ma il valore risiede nel fatto che sarebbero le prime a essere state scovate in una piantagione al di fuori dell’area geografica naturale di questa specie, che ha trovato in Italia la sua terra d’elezione e in Alba la sua capitale.
Scienza batte mito 1 a 0. Il fatto, poi, che il risultato arrivi dalla patria del tartufo nero, non fa che aumentare al contrario il famoso giramento cantato Paolo Conte con Bartali. Anche in Italia i tentativi di coltivare il tuber magnatum pico si susseguono da decenni, con scarsi risultati. Se la sperimentazione verrà confermata su larga scala, che ne sarà della poesia e del mistero del tartufo? Come hanno intuito anche i registi americani Michael Dweck e Gregory Kershaw, che con il loro documentario «The Truffle Hunters» sono in corsa per l’Oscar, i tartufi sono meravigliosi non tanto per il profumo e il valore intrinseco, ma perché dietro questo fungo interrato c’è un universo culturale unico al mondo.
E ancora, più prosaicamente: cosa accadrà al suo elevatissimo prezzo, che oscilla tra i 200 e i 400 euro all’etto in base alla stagione e alla pezzatura, ma che in ogni caso è almeno tre volte più alto di quello del tartufo nero, già ampiamente coltivato? Per Mauro Carbone, direttore del Centro nazionale studi tartufi, che ha sede ad Alba, «c’è spazio per tutti, anche per chi crede di aver trovato la formula per coltivare le trifole. Da decenni assistiamo quasi impotenti alla diminuzione della produzione spontanea di tartufi bianchi, a causa di tanti fattori: il disboscamento, l’incuria, l’inquinamento. Se qualcuno ha finalmente trovato il modo per far crescere i tartufi sotto piante selezionate, non può che essere una bella notizia, che darà fiato a tutto il settore».
Inoltre, se è ormai abbastanza chiaro cosa avviene a livello di micorrize, ciò che invece accade nel terreno è ancora poco conosciuto. «Non sappiamo perché certe piante diventino produttrici e altre no, non sappiamo quanto incidano i vari fattori interni ed esterni», dicono il trifolao Carlo Marenda e il naturalista Edmondo Bonelli, fondatori del progetto di tutela e valorizzazione «Save the Truffle». «Crediamo che questa scoperta, importante dal punto di vista scientifico, ma ancora lontana da una pratica massiva, debba essere un monito a impegnarci di più nel tutelare il fragile ambiente naturale che caratterizza le nostre aree tartufigene. Il tartufo è una sentinella della biodiversità, oltre che una grande soddisfazione per il palato. È questa la magia che deve essere preservata».