Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  febbraio 28 Domenica calendario

Intervista a Piero Angela

Nel mondo di prima la divulgazione scientifica era lui, ma adesso, che tutti parlano di scienza, spesso dandosi la voce l’uno sull’altro, viene proprio voglia di tornare a sentire la sua.
Piero Angela, che effetto le fanno tutti questi virologi e infettivologi che occupano i salotti televisivi parlando di Covid con pareri contrastanti e confondendo le idee di chi, come me, nella vita ha studiato tutt’altro?
«Io cito sempre una frase di Confucio che dice "La scienza è quello che si sa e non è quello che non si sa". Mi rendo conto che sembra quasi una frase di Marzullo, in realtà è un pensiero molto profondo. Vuol dire che quello che si sa è stato provato, sperimentato e condiviso fino a diventare patrimonio comune, e quindi scienza. Se invece parliamo di cose che non si sanno, ognuno è libero di avere il suo parere, che però non è scienza. Di quello di cui si discute in questi mesi in televisione non si hanno certezze, perché nulla è stato sperimentato e verificato nel tempo. Certo, i virologi vanno in televisione perché i giornalisti continuano a fare loro domande come se fossero degli oracoli, e quindi magari le loro opinioni possono anche non coincidere, ma se li si fa parlare di cose che non si conoscono, poi non si può dire: la scienza non sa».
Questo quindi vale anche per i vaccini? Perché al riguardo c’è chi dice che non sono affatto sicuri e chi invece li considera un miracolo della scienza. Lei cosa ne pensa?
«Non lo so. (Sorride). Io ho imparato una cosa da quando ho cominciato a occuparmi di scienza: gli scienziati qualche volta dicono: "Non lo so." Lei ha mai sentito un politico rispondere "Non lo so"?».
Forse mai. Però lei, il vaccino, lo farà?
«Certo che lo farò. Sono prenotato per i primi di marzo. Si ricordi che i vaccini hanno salvato l’umanità da tante malattie. Possono avere degli effetti collaterali, certo, ma hanno salvato tante vite. Prima le fiale arriveranno per tutti e prima usciremo da questa emergenza, che è soprattutto economica».
Anche psicologica. Credo che, al netto di chi sta vivendo dei drammi, le categorie più penalizzate da questo momento di restrizioni siano gli adolescenti e gli anziani. Secondo lei come influirà tutto questo sulla psiche?
«Quando io ero un giovanotto, c’era la guerra. Non solo non c’era da mangiare, ma cadevano le bombe in testa. Non si usciva mica di casa facilmente. Capisco che oggi i giovani vogliano uscire e ritrovarsi, ma insomma ricordiamoci che stare sotto le bombe o su un sofà sono due cose ben diverse».
I ragazzi hanno perso molti mesi di scuola. Che ripercussioni crede che ci saranno sul loro futuro?
«Anche durante la guerra la scuola era a singhiozzo. Io in quarto ginnasio avrò fatto due o tre mesi di scuola in tutto l’anno. E a parte la scuola, non è che ci fossero grandi possibilità di incontro. Oggi i ragazzi, con internet, in realtà hanno molte più occasioni di scambio. Certo, capisco che la mancanza di libertà causi sofferenza, e che ci sono cose che nessun social può sostituire, soprattutto quando ci sono di mezzo le ragazze (sorride di nuovo), ma non sono mica reclusi. Io vedo i miei nipoti che escono con gli amici, si danno da fare. Quello più piccolo, che ha diciassette anni, studia e lavora tantissimo con il computer. Anche lui è molto portato per la scienza. Di cinque nipoti che ho, quattro sono laureati in materie scientifiche».
È una passione di famiglia. Qualcuno prenderà il testimone che lei ha già passato a suo figlio Alberto?
«Per il momento non mi sembra. Però io lavoro con molti giovani. Recentemente abbiamo fatto "Superquark Più" e abbiamo preso dei ragazzi che lavorano sul web. Sono davvero bravi. Abbiamo fatto venti puntate che sono andate su Raiplay. Stiamo quindi sperimentando anche questo nuovo presente. Cosa che dovrebbe fare di più anche la scuola. Io ho girato molto nelle scuole e nelle università. Al Politecnico di Torino ho fatto per tre anni dei convegni sulla scienza, l’economia, l’ambiente, con personaggi di altissimo livello. L’insegnamento secondo me è tuttora troppo rivolto al passato. Si insegna storia, latino, greco, letteratura, le materie scientifiche - e non la scienza - quando i giovani dovrebbero studiare anche l’economia, la tecnologia. È la tecnologia che sta cambiando il mondo. L’innovazione, di cui la scienza è madre e la tecnologia è figlia, è la vera carta della ricchezza di un Paese. Non la politica, che nella storia dell’umanità non ha mai creato ricchezza».
Lei però nel suo libro A cosa serve la politica? parla anche della necessità di investire sulle competenze. Da questo punto di vista uno come Draghi dovrebbe darle più fiducia.
«Guardo a Draghi con grandi speranze, ma non credo che basti un uomo a cambiare un intero Paese. La mia vera preoccupazione per il futuro dei giovani è legata al fatto che senza energia non ci sarebbe innovazione. Una contraddizione catastrofica, perché noi abbiamo sempre più bisogno di energia e l’energia, quando non è pulita, crea disastri ambientali. Ancora non si ha la sensazione reale dei rischi che stiamo correndo. Il virus in confronto è niente. Perché il virus passerà, lo vinceremo. Le sfide per i giovani saranno ben altre».
Lei ha qualche rimpianto?
«No, perché ho sempre saputo cogliere le occasioni che la vita mi ha offerto. Però mi guardo indietro, certo. Qualche volta ripenso agli anni della giovinezza. Ho vissuto a Torino fino a ventisette anni e ho mantenuto fino a poco tempo fa il contatto con i miei compagni di terza liceo. Facevamo delle cene per ritrovarci di tanto in tanto, però poi ho perso i numeri di telefono, qualcuno è venuto a mancare, qualcun altro è sparito, non li ho più rivisti. Mi chiedo se c’è ancora qualche superstite in giro (sorride ancora) e, visto che questa intervista uscirà anche in allegato alla Stampa, ne approfitto per salutarli».
C’è qualcuno, tra gli amici della giovinezza, che ricorda con particolare affetto?
«Sì, lui non l’ho perso di vista: si chiama Gigi Marsico, è ancora vivo e ha compiuto 94 anni. È stato il mio maestro, quello che mi ha cambiato la vita. Ero al secondo anno di Ingegneria e lui era già un giornalista. È stato Gigi Marsico ad avviarmi a questo mestiere. Tutto quello che ho fatto lo devo a lui».
Altri affetti che le tengono compagnia oltre a sua moglie e alla sua famiglia?
«Mi sento tutte le sere con mia sorella. Ci facciamo delle lunghe chiacchierate, scherziamo, parliamo della vita, della nostra infanzia. Una donna molto intelligente che, a parte qualche acciacco, sta benissimo».
Videochiamate?
«No, quelle a dire il vero, mi mettono un po’ di tensione. Come se dovessi andare in televisione (ride)».
Ma come? Proprio lei che di televisione ne ha fatta più di tutti?
«Guardi che prima di iniziare una diretta io ero molto nervoso. Ricordo quando partiva la sigla di Eurovision, negli anni Cinquanta, ero tesissimo, poi dopo dieci-quindici secondi mi rilassavo completamente. È l’aspettativa che di solito crea l’ansia».
Com’è cambiata secondo lei la televisione?
«Quando ho cominciato io, c’erano pochissime donne per esempio. Io sono stato il primo conduttore di un telegiornale ed eravamo solo uomini. Mentre oggi i telegiornalisti mi sembrano a maggioranza donne, che poi sono anche le più brave. Ma io ricordo ancora la sfuriata di un caporedattore al suo vice perché aveva mandato una giornalista donna a un convegno di politica. I miei erano davvero altri tempi».
Speriamo che non tornino, visto che le donne, dall’inizio della pandemia, sono quelle che hanno perso più posti di lavoro.
«Se guardiamo indietro i cambiamenti sono stati molti e straordinari, e il cammino è stato rapido, ma la marcia è ancora in corso. Ci sono imprenditori, forse più i piccoli che i grandi, che non assumono donne per via delle gravidanze e del tempo che sottraggono al lavoro nella gestione dei figli. Le donne sono ancora molto penalizzate».
Anche il mondo del lavoro è stato stravolto dalla pandemia. Lo smart working e le consegne a domicilio rischiano di non farci uscire più di casa. Che umanità diventeremo?
«Io credo che sia solo un’esigenza temporanea. Prenda ad esempio quelle aziende in California in cui lo smart working è stato sperimentato molto prima del Covid: alla lunga non ha funzionato. Il contatto umano nel lavoro è fondamentale. Quel famoso "andiamo a prenderci un caffè" è anche il momento in cui nascono nuove idee e nuovi progetti. Nel giornalismo, per esempio: se manca il contatto umano è un disastro. Sì, si possono fare anche le interviste per telefono certo, ma è tutta un’altra storia».
Già, se per esempio questa conversazione fosse avvenuta a casa sua, io oggi avrei avuto l’occasione di ammirare la sua collezione di strumenti musicali, mi hanno detto che ha il salotto pieno di clavicembali.
«Sono pur sempre un musicista. Suono il pianoforte. Mi ha accompagnato per tutta la vita. Ormai non esco quasi più, ed è da qualche anno, da prima del virus, che ho smesso di girare il mondo. La musica è una grande risorsa per me».
Ha paura di morire?
«Non direi. La morte è una certezza per tutti. Io ho compiuto novantadue anni, sono in piedi, ho appetito, il cervello funziona bene e il pianoforte funziona sempre meglio. Non mi posso lamentare. Mi proteggo dal virus, con le mascherine e tenendomi a distanza, anche perché, se mi becca sono fritto (ride). A ogni modo, quando mi siedo al pianoforte e mi metto a navigare sulla tastiera, di colpo mi rilasso completamente».