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 2021  febbraio 28 Domenica calendario

"Monarchie destinate a resistere"

Per le monarchie orientali è diverso: si reggono sull’uso della forza, sull’utilizzo delle risorse economiche, sullo sfoggio di potere, e i fattori che potrebbero mandarle in crisi sono di volta in volta differenti, legati a dinamiche che investono la struttura stessa delle loro società, dal livello di arretratezza alla forma dei loro ordinamenti. Nel caso delle monarchie costituzionali, rappresentate con maggior forza in Europa da Regno Unito, Norvegia, Svezia, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca e Spagna, l’equilibrio si fonda su elementi più sottili, talvolta immateriali, tanto che oggi è lecito chiedersi: che futuro hanno? E soprattutto: hanno ancora un senso? Ne abbiamo parlato con Paolo Colombo, ordinario di Storia delle istituzioni Politiche all’Università Cattolica di Milano e autore, tra l’altro, della Storia costituzionale della monarchia italiana, pubblicata da Laterza.
Professor Colombo, secondo lei quali sono i fattori di tenuta delle monarchie costituzionali nell’epoca della globalizzazione?
«Proprio in un’epoca in cui i legami con il passato per tante ragioni si vanno perdendo, le monarchie, una volta costituzionalizzate, mantengono un fascino del passato che invece non si perde. Hanno dunque una rappresentanza simbolica che altre autorità non possiedono, a cui si aggiunge una rappresentanza psicologica».
Che cosa si intende?
«È una categoria utilizzata per spiegare l’identificazione della gente con un soggetto non eletto, con una rappresentanza non elettiva. L’esempio più classico è quello del Pontefice, in grado di rappresentare milioni di milioni di persone. Da questo punto di vista sono ancora validi elementi che erano presenti già secoli fa, come la divisione – descritta in The English Constitution di Walter Bagehot - tra una parte efficiente e una parte nobile nella struttura del sistema. Quella efficiente si occupa della politica attiva, quella nobile, sulla base di un potere non definibile e non controllabile, ne garantisce la tenuta».
Meno poteri hanno i sovrani, minore sarà l’interesse a toglierglielo. La forza delle monarchie costituzionali è nella loro debolezza?
«A prima vista può sembrare così, sembra che facciano talmente poco da rivelarsi inutili. Ma a ben vedere questo ha a che fare con la struttura stessa dell’essere sovrani: in origine il re era sacro, dunque per definizione "irresponsabile", nel senso che nessuno si sarebbe mai sognato di metterne in discussione le scelte. Questo ha prodotto situazioni in cui, se il sistema funziona, la corona non è visibile: proprio nella misura in cui agisce, non si deve vedere. Esempio classico ne sia la copertura ministeriale, ovvero il fatto che ogni atto del monarca deve avere la firma di un rappresentante del governo che lo garantisce. Il momento della volizione politica, quando ha a che fare con un re, deve rimanere oscuro».
Più agiscono nell’ombra più sono forti?
«Diciamo che è difficile vedere quando i monarchi sono attivi o no, perché se funziona non si deve vedere. Come sappiamo, in realtà poi fanno molte cose, ma la "irresponsabilità" di fondo, derivata dall’aura di sacralità, li mette naturalmente nel ruolo di un potere neutrale, o meglio "super partes". Un esempio interessante ci viene dalla storia italiana: Mussolini, come è noto, non eliminò mai la monarchia, sebbene la marginalizzò in tutti i modi. Alla fine, però, a destituire Mussolini sarà proprio il re. Un segno che le monarchie alla fine contano».
C’è poi il fattore dell’unità nazionale, che in molti casi i monarchi contribuiscono a mantenere. A quali condizioni però? Che siano simpatici, credibili, o semplicemente amati dal loro popolo?
«C’è sempre stato lo sforzo di rendere amabili i re e le regine, tanto che su ciascuno si costruisce una narrazione che li renda memorabili: Carlo Alberto era il re magnanimo che concede la costituzione, Vittorio Emanuele il padre della patria, Umberto I il re borghese… C’è la persona e c’è l’istituzione, che è monocratica, e non vanno confuse. Elisabetta, lo abbiamo visto tutti anche in The Crown, continua a ripetere: "Non sono io, è la Corona". Paradossalmente Diana, che era molto amata e con spiccate caratteristiche individuali, proprio in virtù della sua personalità, interferisce con questo sistema. Un sovrano con grande impatto comunicativo è un’arma per la forza della monarchia, ma è un ostacolo per la sua istituzione».
Felipe VI, ad esempio, ha avuto un ruolo di primo piano nell’affrontare il separatismo catalano. I sovrani diventano importanti in presenza di governi fragili?
«Ci sono precedenti storici: c’è una dinamica istituzionale per cui quando c’è una personalità del sovrano di spicco, i governi sono meno autorevoli, e in presenza di governi deboli la personalità e la figura del re aumenta di peso».
Se in Italia il referendum tra monarchia e repubblica fosse andato diversamente, i Savoia avrebbero comunque resistito fino a oggi?
«Gli storici dovrebbero evitare la controstoria, ma è vero che nel caso del referendum italiano è legittimo pensare che poteva effettivamente esserci un risultato diverso. Credo che sì, dal punto di vista istituzionale, i Savoia oggi sarebbero al Quirinale. Un re del resto avrebbe avuto una certa facilità a interpretare quel ruolo di potere super partes, ancora di più sulla base dell’esperienza fatta da Umberto».
Vede un futuro lungo e prospero per le monarchie europee?
«Se per futuro lungo e prospero si intende qualche decennio, in assenza di cataclismi culturali direi di sì. L’enorme attrattiva mediatica, in particolare esercitata dalla monarchia inglese, mostra che si tratta ancora di una lunga storia, anche al netto dei dibattiti sull’obsolescenza dell’istituzione in quanto tale».