la Repubblica, 28 febbraio 2021
I segreti di Assad
In una città nel cuore dell’Europa di cui, per ragioni di sicurezza, non può essere rivelato il nome, Repubblica è entrata nel luogo che custodisce 321 scatole di cartone, chiuse in una stanza blindata, che documentano i crimini di guerra del regime siriano di Bashar al Assad. Le scatole sono l’una uguale all’altra, impilate su scaffalature metalliche. A distinguerne il contenuto, piccole etichette bianche. Sulla porta dell’ufficio che dà nel locale blindato nessuna targa, così come all’ingresso del palazzo: due rampe di scale anonime, uffici ed appartamenti.
Perché nessuno, tra quanti passano in questo edificio ogni giorno, possa mai immaginare che qui è nascosto il più grande archivio di documenti di guerra raccolto dai tempi di Norimberga, il più imponente mai messo insieme su un conflitto ancora in corso.
Parliamo di quasi un milione tra appunti, documenti e mappe trafugati in segreto dalla Siria, che raccontano in che modo Bashar al Assad sia riuscito a vincere il conflitto che da dieci anni insanguina il Paese. Che ha visto sin qui più di 600 mila siriani morire e 11 milioni — la metà della popolazione — fuggire. Ordini di arresti di massa, elenchi di sospettati, disposizioni per operazioni militari, minute del consiglio ristretto che guidava la guerra, decaloghi regole per la tortura dei detenuti, certificati di morte falsificati, dispacci firmati dal comandante in capo in persona, Assad appunto.
«Molte di queste carte possono sembrare innocue al primo sguardo ma messe insieme rendono evidente la catena di comando che sovraintende e decide tutto quello che accade in Siria. Questi documenti dimostrano che Bashar al Assad e la cerchia di potere a lui più vicina sono responsabili della morte di migliaia di persone».
A parlare è Bill Wiley, 54 anni, canadese, avvocato con un passato da militare, un veterano della giustizia internazionale: ha collaborato con la Corte penale internazionale dell’Aja, i Tribunali speciali per la ex Jugoslavia e il Ruanda, in Iraq è stato incaricato di coordinare il team di difesa di Saddam Hussein.
Nel 2011, quando è iniziata la rivolta, ha usato la sua esperienza e il suo network per formare decine di volontari siriani per raccogliere documenti nelle zone abbandonate dal regime e portarli fuori dal Paese. «All’inizio pensavamo che il governo avrebbe perso rapidamente e che ci sarebbe stato un processo internazionale contro Assad e gli altri. Quando la crisi si è prolungata e sono entrati in scena altri Paesi, abbiamo capito che sarebbe stato impossibile. Ma abbiamo continuato a lavorare», spiega.
Nel 2014 è nata ufficialmente la Commissione per la Giustizia internazionale e la Responsabilità (Commission for international Justice and Accountability, Cija), una no profit finanziata con fondi dei governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, diversi Paesi europei e della Commissione Ue. La sua missione è raccogliere prove destinate a portare i responsabili di crimini contro l’umanità di fronte alla giustizia internazionale. Oggi il gruppo è attivo in diversi Paesi, in Medio Oriente e non solo: con la medesima segretezza e con il medesimo scopo.
Wiley ha modi spicci e diretti: il suo ufficio è austero. Unica decorazione alle pareti una lavagna che illustra la struttura di Cija e le operazioni in corso: una quarantina di persone che gravitano intorno al quartier generale, dove ci troviamo, e una novantina sparse nei diversi Paesi. La frustrazione per i veti incrociati della politica e la burocrazia infinita delle organizzazioni internazionali, spiega buona parte dei motivi che lo hanno portato fin qui. E gli fa alzare le spalle di fronte alle accuse di essere al soldo di chi vuole un cambiamento di regime in Siria: non ha problemi ad ammettere che per arrivare ai materiali i suoi uomini hanno stretto accordi con le milizie che avevano sconfitto l’esercito siriano, ovvero il Free Syrian Army e le sue mille anime, compresi alcune poi confluite nel fronte Al Nusra, considerato vicino ad Al Qaeda: «Ci muoviamo in ambiti dove né i governi né le Nazioni Unite possono andare. E usiamo strumenti che non potrebbero usare», dice. Ma questo, sottolinea, non inficia i risultati: «Non siamo un ente politico. Non abbiamo uno scopo preconcetto. In Siria abbiamo raccolto prove che incriminano il regime così come lo Stato islamico».
Ma se i crimini dell’Isis sono sotto gli occhi di tutti, è su quelli di Damasco che le carte nascoste nella stanza blindata possono gettare una luce decisiva: «Ci sono prove schiaccianti di atrocità di massa, le più chiare che mi sia capitato di vedere in tanti anni di lavoro», conclude Wiley .
La missione di Cija presenta rischi: uno degli uomini che raccolgono i documenti è stato ucciso, un altro ferito. Una volta centinaia di documenti meticolosamente raccolti sono stati lasciati in custodia di una donna in una casa sperduta della campagna siriana perché la situazione era troppo rischiosa per trasportarli: ma quando i contrabbandieri sono andati a recuperarli, l’anziana li aveva bruciati per difendersi dal freddo.
Una volta arrivato in Turchia e poi nel quartiere generale, ogni foglio è scannerizzato e archiviato con un codice: da questa stanza blindata le carte hanno viaggiato alla volta degli Stati Uniti, dove sono state determinanti per la condanna del regime per l’omicidio mirato della reporter Marie Colvin e del fotografo francese Rémi Ochli a Homs, nel nord del Paese, nel febbraio 2012. Stanno per prendere la via di altre capitali europee dove sono in corso indagini contro elementi del regime siriano. E oggi costituiscono il corpo centrale del primo processo per crimini contro l’umanità che vede alla sbarra esponenti del regime siriano in corso a Coblenza, in Germania.
Il processo
Alla sbarra ci sono due ufficiali dei servizi segreti di Damasco fuggiti nel 2012, Anwar Raslan ed Eyad al Gharib. Il primo, un generale, è accusato di complicità nella tortura di almeno 4mila detenuti fra il 2011 e il 2012 nella sezione 251 dei Servizi segreti, a Damasco, nota come al Khatib branch: in almeno 58 casi, le torture hanno portato alla morte dei detenuti. Il secondo, suo sottoposto, di tortura in almeno 30 casi. Entrambi sono stati arrestati in Germania, dove avevano trovato rifugio dopo essere fuggiti da Damasco: e sono sotto processo in base al principio della Giurisdizione Universale, che consente allo Stato tedesco di perseguire gli accusati di crimini contro l’umanità indipendentemente dal fatto che i reati abbiano qualche nesso con la Germania.
Questo processo è il primo tentativo di fare giustizia per le oltre 130mila persone detenute o scomparse nelle carceri siriane dal 2011 a oggi: molte di queste sono sparite da anni e presumibilmente morte. La Siria infatti, non ha aderito allo Statuto di Roma che ha dato vita alla Corte Penale Internazionale: ciò significa che i crimini commessi in quel Paese possono essere portati davanti ai giudici dell’Aja solo dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Tentativo finora bloccato da Russia e Cina, alleate di Assad. Per questo da mesi Coblenza, tranquilla cittadina sulle rive del Reno, è diventata centrale nella geografia di milioni di siriani e di chi si occupa di giustizia internazionale. Il primo verdetto, quello contro Eyad al Gharib, è stato emesso il 24 febbraio. L’ufficiale è stato condannato a quattro anni e mezzo di detenzione: una pena lieve che però è stata accolta come un risultato importate dalla comunità dei fuoriusciti siriani.
«Questo verdetto non è solo su al Gharib, che era un ufficiale di basso grado, o sul numero di anni che dovrà scontare. E’ sulle ingiustizie che tante famiglie siriane hanno subito in questi anni. Riconosce infatti con dovizia di particolari i cimini delle sparizioni forzate, delle detenzioni arbitrarie e della tortura commessi all’interno dei centri di detenzione siriani negli ultimi dieci anni – spiega Ameena Sawaan, attivista di The Syrian Campaign, uno dei gruppi di siriani in esilio che lavorano per sensibilizzare l’opinione pubblica su quello che accade nel loro Paese di origine – è un precedente che speriamo venga seguito per altri casi contro il regime che sono in preparazione in Europa. Il messaggio ai Paesi europei è chiaro. Non è accettabile costruire una relazione politica con Assad mentre sono i suoi occhi continuano ad essere commessi crimini contro l’umanità».
Se i morti potessero parlare
Dall’inizio del procedimento, nell’aprile 2020, davanti ai giudici tedeschi è sfilata una ventina di siriani: la giuria ha ascoltato racconti di violenze, denutrizione, malattie, abusi sessuali impossibili da falsificare, perché l’uno combaciante con l’altro. Una galleria di orrori in cui, testimonianza dopo testimonianza, è apparso chiaro che nulla avveniva per caso, ma come frutto di una regia chiara. Una delle giornate più drammatiche è stata quella in cui sul banco dei testimoni si è seduto uno degli autisti dei camion che trasportavano i cadaveri provenienti dalle diverse prigioni e ospedali militari verso i cimiteri dove erano state scavate le fosse comuni: ha raccontato delle centinaia di corpi deformati dalla tortura che ha visto sfilare sotto i suoi occhi, e di come un giorno la vista del corpo di una madre che anche nella morte teneva stretto a sé il figlioletto, lo avesse fatto definitivamente crollare.
Ma al di là delle testimonianze e dei faccia a faccia fra torturati e torturatori, sono soprattutto le carte fornite da Cija, con la loro freddezza burocratica a incastrare gli imputati, e in particolare Anwar Raslan: i documenti firmati di suo pugno che lo collocano inequivocabilmente alla testa del Branch 251 fra il 2011 e il 2012, sono moltissimi. Provano il suo ruolo di supervisore degli arresti e del trattamento dei prigionieri. E il fatto che da quel carcere, nel periodo in cui lo dirigeva l’imputato, sono usciti almeno 58 degli 11mila cadaveri immortalati da Caesar, nome in codice che indica uno degli uomini incaricati di fotografare i corpi dei detenuti, fuggito dopo aver portato con sé gli scatti che per la prima volta hanno mostrato al mondo ciò che accade nelle carceri siriane.
Uomini e donne con denti rotti, unghie strappate, orbite divelte, segni di denutrizione, di bruciature e di mutilazioni: testimoni silenziosi della tortura sistematica a cui da anni vengono sottoposti i detenuti. Corpi a cui, in minima parte, grazie alle carte raccolte da Cija e alle testimonianze dei sopravvissuti è stata restituita una storia e un’identità.
«Se si guarda all’intera struttura del potere siriano i due imputati di Coblenza sono pesci piccoli, ma questo processo va ben oltre le loro storie», spiega Nadim Houry, direttore dell’Arab Reform Initiative, autore nel 2015 di “Se i morti potessero parlare: assassinii di massa e tortura nelle prigioni siriane”, il rapporto con cui Human Rights Watch fotografa la macchina della morte di Damasco. «Le sentenze che ne usciranno saranno un precedente da cui non si potrà prescindere in futuro quando si parlerà di Siria. La Storia metterà agli atti che questo è stato: che tortura e morte non erano solo parole usate dagli oppositori, ma la realtà. E la politica, quella europea prima di tutto, non potrà più fingere di non sapere di cosa è capace chi governa quel Paese. Nessuno potrà più dire che non sapeva».
Impedire la cancellazione della memoria e, ancora di più, assicurarsi che chi è al potere a Damasco ora non sia parte del futuro della Siria, è la missione che si è dato Anwar al Bunni. A 62 anni, questo avvocato di Hama, nell’Est del Paese, è da oltre quattro decenni una spina nel fianco per il regime degli Assad: il padre Hafez prima, il figlio Bashar poi.
Il suo primo arresto risale al 1978, quando aveva 19 anni: per quattro settimane fu tenuto proprio al Branch 251 e torturato con le scosse elettriche. Il trattamento non lo scoraggiò: nei decenni che seguirono diventò il più importante legale specializzato in diritti umani in Siria, in prima fila nel difendere le vittime del regime. A lungo tollerato grazie alla rete di contatti internazionali che si era costruita, nel 2006 venne di nuovo arrestato e portato in un’altra prigione, di cui era responsabile Anwar Raslan. L’anno successivo fu condannato a cinque anni di carcere: ne uscì nel maggio 2011, in tempo per vedere il Paese ribellarsi al regime che aveva così a lungo combattuto. Per tre anni, Al Bunni fece il possibile per sostenere la rivolta: poi nel 2014, di fronte all’ennesimo mandato di cattura fuggì in Libano e da lì in Germania. Fu lui, due anni dopo, a riconoscere per primo in un campo per rifugiati siriani, il suo torturatore, Anwar R., e a iniziare insieme allo European center for constitutional and human rights (ECCHR) di Berlino la raccolta dei testimonianze e dei dati che sono sfociati nell’arresto del sospettato e nel processo di Coblenza.
Dai giudici tedeschi Al Bunni è stato ascoltato come testimone, non come avvocato: in Germania la sua licenza non è valida. «Questo processo per me è il risultato di una vita: come legale perché sento di aver contribuito alla ricerca di giustizia per migliaia di persone, quelle che hanno presentato ricorso qui e quelle che stanno guardando il processo da lontano. E come vittima perché so bene quanto è costato a ognuno di quelli che sono venuti a parlare, farlo: conosco il loro dolore, la vergogna, la paura». Nel piano di Al Bunni, il procedimento in corso a Coblenza è solo una tappa: «Vogliamo un processo ad Assad e ai suoi uomini. Vogliamo che sappiano che li stiamo aspettando, che non potranno mettere piede fuori dalla Siria perché ci sarà un mandato di cattura ad aspettarli. Vogliamo che sappiano che per loro non c’è posto nel futuro del nostro Paese. Che è nostro: e dove vogliamo tornare », dice.
Empatia contro rigore. Tensione emotiva contro analisi deduttiva. Al Bunni e Wiley non potrebbero essere più diversi. Anche se condividono lo stesso obiettivo: «Le testimonianze raccolte da Anwar, insieme ad altri attivisti come Mazen Darwish e all’ECCHR sono importanti per far capire cosa hanno subito migliaia di persone – spiega il fondatore di Cija – ma saranno i documenti a far condannare gli imputati: perché è lì che è ricostruita senza alcuna ombra di dubbio il loro ruolo», sostiene il canadese.
La parola alle carte
Le carte non mancano: come a suo tempo il nazismo, il regime siriano ha documentato passo passo i suoi sforzi per reprimere la ribellione pacifica prima e vincere la guerra civile che ne è seguita poi.
Gli uomini di Cija hanno recuperato dozzine di ordini partiti da Damasco e diretti alle varie di città di provincia, firmati a mano e con un timbro di riconoscimento dai più alti ufficiali del regime: “Il tempo della tolleranza è finito. Ci aspettano confronti di natura multiforme contro dimostranti, sabotatori della sicurezza e vandali”, si legge in un documento del Comando centrale delle forze armate del 20 aprile 2011, classificato come “altamente confidenziale”.
“Vanno arrestati soprattutto coloro che incitano e finanziano i dimostranti, oltre che i membri dei comitati di coordinamento che organizzano le manifestazioni e gli agenti che tengono i contatti con l’estero per danneggiare l’immagine della Siria presso i media e le istituzioni straniere”, è scritto in una nota diramata all’ufficio del responsabile dei Servizi segreti interni in un documento dell’agosto 2011.
I documenti rivelano inoltre la modalità di lavoro della Cellula centrale per il controllo della crisi (Central crisis mangament cell – CCMC) una sorta di gabinetto di guerra creato per gestire la rivolta, sotto la direzione di Assad. La struttura inviava ai comandi periferici dell’esercito e dell’intelligence istruzioni su come schiacciare il dissenso e chiedeva di rimandare indietro relazioni sui progressi delle operazioni. Il risultato si trova nelle scatole ammassate nell’archivio segreto: centinaia di fogli, per la maggior parte risalenti agli anni fra il 2011 e il 2014, che riportano i nomi dei responsabili delle singole operazioni sul terreno e di chi le ordinava da Damasco. Molti sono firmati dallo stesso Assad.
«In Siria c’è un sistema di dominazione paragonabile a quello della Stasi in Germania dell’Est. Tutto veniva documentato, catturato in documenti iper-burocratici. Tutti insieme, mostrano che dietro alla morte di migliaia di prigionieri c’era un lavoro diabolico, che veniva dall’alto ma coinvolgeva anche pesci piccoli, ingranaggi consapevoli e consenzienti della macchina della morte. Come responsabile delle camere a gas naziste non era solo chi ordinava di mettere a morte gli ebrei, ma anche chi li denunciava e chi guidava i treni che li portarono alla morte, qui i responsabili sono anche i medici che non curavano i detenuti feriti, le guardie che li picchiavano e li violentavano, gli uomini dei servizi segreti come Anwar Raslan e Eyad al Gharib», sostiene ancora Houry dell’Arab reform initiative. «Questo mi dà speranza per il futuro perché se Assad e i suoi un giorno arriveranno alla sbarra, se la grande politica internazionale deciderà che questo può accadere, sappiamo per certo che ci saranno abbastanza prove per condannarli».
Il dovere della memoria
Feras Fayyad vorrebbe condividere la stessa speranza: ma, come ammette candidamente, non ce la fa. A 37 anni è uno dei più famosi registi siriani: il suo documentario “The Last Men in Aleppo”, sulla resistenza al regime della seconda città del Paese e sui volontari dei White Helmets, le forze di difesa civile che tentavano di salvare le vittime dei bombardamenti di Assad, è stato nominato agli Oscar e gli ha fatto guadagnare un Emmy. Oltre che l’odio e ondate di attacchi in Rete da parte dei sostenitori del regime e della Russia. A Coblenza si è seduto sul banco dei testimoni per raccontare per la prima volta delle torture subite al Branch 251: il suo crimine era quello di aver ripreso le manifestazioni pacifiche e la sanguinosa repressione dei militari e aver inviato le immagini all’estero. Ha parlato delle botte, delle scariche elettriche, della mancanza di cibo e degli abusi sessuali subiti: un argomento assolutamente tabù per un uomo in quella parte di mondo. «L’ho fatto per andare avanti – ci racconta al telefono con la voce che si spezza – perché per mettermi dietro alle spalle quello che ho subito dovevo tirarlo fuori. Lo dovevo a mia moglie, che non sapeva nulla, e a mia figlia, che è troppo piccola per capire. Oltre che alle migliaia di persone che hanno subito quello che ho subito ma non hanno avuto e non avranno mai la possibilità di sedersi davanti al loro torturatore e guardarlo negli occhi. Ho sentito la responsabilità di parlare anche per loro: perché solo se saprà affrontare quello che è accaduto la Siria avrà un futuro».
Quale sarà il futuro della Siria a pochi giorni dal decimo anniversario della rivolta civile che ne ha cambiato il destino è impossibile dirlo. Il regime di Assad ha ripreso il controllo della maggior parte del territorio, ma la metà della popolazione è fuggita e il Paese è spaccato in tre entità distinte: una che risponde a Damasco, una curda e un’ultima in mano agli ultimi gruppi ribelli, infiltrati di estremisti. Eppure l’ammonimento che viene da Fayyad, da Al Bunni, dai siriani che hanno sfilato a Coblenza e dalle scatole nascoste in una stanza segreta è chiaro. Quello che è accaduto non si può e non si deve dimenticare.