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 2021  febbraio 28 Domenica calendario

Ibra contro Lebron

Escono tutti e due dal ghetto. Zlatan Ibrahimovic e LeBron James. Uno svedese, l’altro americano. Uno bianco e uno nero. Uno col pallone tra i piedi, l’altro con la palla tra le mani. Calcio e basket. Entrambi da ragazzi, vittime di pregiudizi razziali. Lebron senza padre (scappato), nato da una madre sedicenne, povera, a Akron, Ohio. Ibrahimovic, figlio di immigrati jugoslavi, cresciuto a Rosengård, quartiere di Malmoe, dove l’86% della popolazione viene da fuori. Potrebbero essere dalla stessa parte. Tutti e due ce l’hanno fatta: carriera soldi fama. Entrambi rivendicano l’appartenenza alla bassa società, a quella trascurata, LeBron per otto anni non ha nemmeno avuto una casa, dormiva sui divani di chi lo ospitava. Invece no, uno si mette a sfidare l’altro, sul tema: il significato di essere campione. Anzi a duellare, a sputare fuoco è Ibra che dice davanti a una telecamera, senza false interpretazioni: «LeBron è fenomenale per quello che sta facendo, ma non mi piace quando la gente che ha un certo tipo di status fa politica allo stesso tempo. Se sei bravo a giocare, gioca e basta. Io a calcio sono il migliore, non mi metto a fare il politico». E se per caso non avete afferrato Ibra ribadisce: «Fai quello in cui sei bravo, fai il tuo mestiere. È il primo errore che fa chi diventa famoso». Quando si occupa di altro, è sottointeso. Insomma, non approfittarti del fatto di essere un’icona, pensa a segnare e urla lì la tua gioia.
Ora ricordatevi che Ibra nel 2015, allora nel Paris Saint Germain, fece una campagna per il World Food Programme contro la fame del mondo. E si tatuò sul corpo cinquanta nomi di bambini. «Io sono conosciuto, in tanti mi seguono, ma ci sono nomi per cui nessuno fa il tifo: Carmen, Rahma, Antoine, Lida, Chheuy, Mariko. Ci sono 805 milioni di persone che soffrono la fame, tra loro tanti, troppi, bambini. Fai in modo che il mondo lo sappia». Non solo, ma quando nel 2018 Le-Bron approdò sulla costa del Pacifico in maglia Lakers, il tweet di Ibra fu chiaro, anche se vagamente megalomane: « Now LA has a God and a King ». Ora Los Angeles ha un dio e un re. Viva il regno dei forti, la monarchia dei migliori.
Vuoi che LeBron, dopo aver segnato l’altra notte 28 punti (ci mancherebbe) contro Portland, non rispondesse a Zlatan? A torso nudo, molto tatuato anche lui, senza nessuna esitazione, guardando dritto nella telecamera: « I’ll never shut up about things that are wrong ». Servisse la traduzione: «Non starò mai zitto davanti alle cose sbagliate». A tanto per ribadire che nessuno può a dire a LeBron come comportarsi: «Non c’è modo che io mi limiti allo sport. Io sono parte della mia comunità e ho oltre 300 ragazzi nelle mie scuole che hanno bisogno di una voce e io sono la loro voce. Mi occuperò sempre di temi come l’uguaglianza, la giustizia sociale, il razzismo, l’assistenza medica e il diritto al voto. So quanto è potente la mia voce e la piattaforma da cui parlo e la userò sempre per occuparmi di certe cose, nella mia comunità, nel mio paese e in tutto il mondo». Più un applauso a Renee Montgomery, ex guardia dell’Atlanta Dream, diventata comproprietaria della sua ex squadra di basket nell’Wnba, società prima guidata da Kelly Loeffler, senatrice repubblicana, seguace di Trump, molto avversa a tutti i temi razziali. Infine una stoppata, una di quelle che ti toglie il pallone dalle mani e dai piedi, fatta così, con disinvoltura: «Scusate, ma Ibrahimovic non era quello che nel 2018 si lamentava di essere trattato male dalla critica, perché invece di avere un nome svedese come Svensson ne aveva uno straniero?». Sì sì, era il 2018 e Ibra giocava a Manchester, accusando la Svezia di un razzismo sommerso: «Appena sbaglio mi attaccano, con altri non succede, sono il migliore in assoluto, ma do fastidio». Se è per questo Jeremy Lin, di origini taiwanese, nove stagioni nell’Nba ha appena denunciato il razzismo subito dalla comunità asiatica negli Stati Uniti. «In campo, io gioco nella G-League, ormai mi chiamano coronavirus».
C’è gente come Ali, Tommie Smith, Hank Aaron, che non si è accontentata di essere brava solo nello sport e c’è chi come Martina Navratilova, Colin Kaepernick, Naomi Osaka gioca anche fuori dal campo. Cosa ne pensa Lilian Thuram, ex giocatore e scrittore (in autunno uscirà da add editore «Il pensiero bianco»), che ha creato una Fondazione che si batte contro il razzismo e la disuguaglianza? «Perché un giocatore non dovrebbe occuparsi di politica? Ognuno di noi lo deve fare, famoso e no, ricco e povero, tutti dobbiamo decidere una strada comune per vivere insieme. Ci sono i campioni che pensano a far divertire la gente e ci sono quelli che pensano di cambiare il mondo. A volte Ibra è così, mosso forse dalla voglia di mettersi sullo stesso piano di Le-Bron. Come a dire: siamo alla stessa altezza. A lui piace provocare, perché ama essere al centro dell’attenzione, ma credetemi, Ibra non dimenticherà mai da dove viene». Sanremo per Ibra e Casa Bianca per LeBron?