La Gazzetta dello Sport, 28 febbraio 2021
Vittori e Mennea, 50 anni fa
Si sono dati del lei per tutta la vita. Per stare così vicini, vicinissimi, come hanno fatto loro, ci voleva una distanza. Insieme neanche una pizza. Ma un oceano di allenamenti, corse, incazzature, tabelle, viaggi, medaglie, record. Pietro Mennea e Carlo Vittori, uno dei binomi atleta/tecnico che hanno fatto la storia dello sport italiano, pure diversissimi fra loro, erano fatti l’uno per l’altro. La loro coppia sprigionava una forza straordinaria, eppure a tratti era come assediata dai fantasmi, una fragilità che sembrava il pedaggio pagato a un investimento comune grande, totale, assoluto. C’era una specie di patto non scritto fra di loro, una sfida nella sfida, quasi una competizione interna sull’altare della missione condivisa, un protocollo invisibile da non violare mai. Le rarissime eccezioni sono diventate romanzo: i 5 minuti di ritardo di Vittori all’allenamento con Pietro che indicava l’orologio a mo’ di rimprovero, l’allenamento che la Freccia del Sud bucò, alzando le mani in una giornata di freddo cane, con il tecnico marchigiano a sottolineare quell’unica resa. C’era una cosa che li univa: scrivevano tanto. Ognuno aveva la sua agenda e appuntava tutto, solo che un bel po’ di quelle di Vittori si persero in qualche ristrutturazione a Formia, quelle di Mennea sono ancora nello studio dove lavora la moglie Manuela, insieme con le sue medaglie, i suoi lp, i caschi della moto e un cane che ha un nome che dice tutto: Speed... Fa tenerezza leggere il diario di Pietro del 1971, 50 anni fa, l’anno in cui cominciarono praticamente a vivere insieme, a Formia, la bottega d’autore dove costruirono i loro capolavori. Mennea s’era appena diplomato ragioniere, aveva corso i suoi primi Europei, si interrogava sul futuro. Parlava di restare a Barletta, a casa, un lavoretto che gli consentisse di avere tempo per l’atletica. Poi si affacciò una soluzione agli antipodi: un college negli Stati Uniti. Vittori non s’ingelosì, forse fece finta, fatto sta che gli disse: «Se avessi un figlio con le tue qualità e possibilità, gli direi senza dubbio di cogliere questa opportunità». Era sincero? Qualche settimana dopo, Mennea prendeva armi e bagagli e si trasferiva, ma a Formia, nell’“officina” vittoriana, dove avrebbe vissuto un bel mucchio di anni, anni pieni, pienissimi, grandi. Dal 1971 al 1984 con l’interruzione del primo ritiro. Gli anni delle battaglie con Borzov, Don Quarrie, Wells. Gli anni del 1972 del record del mondo dei 200 del Messico o del “recupera, recupera, recupera, recupera, ha vinto!” dell’oro di Mosca raccontato in tv da Paolo Rosi, del primo Golden Gala inventato da Nebiolo subito dopo, in cui Mennea non batté solo gli americani che avevano boicottato l’Olimpiade, ma anche la stanchezza di una notte insonne per le zanzare.
Canestri e bistecche
Ma torniamo a quel 1971 perché moriamo dalla voglia di dirvi una cosa. Sfogliando quel quaderno, c’è un qualcosa che ci stupisce. Sono descritti minuziosamente gli esercizi compiuti con il “pallone medicinale”, le “corse nei campi”, persino una “passeggiata”. Poi indovinate chi arriva? Le “partite di pallacanestro”. O “partitelle”. O semplici “tiri a canestro”. Tanto basket, quasi tutti i giorni. Questa ci mancava. Poi c’erano i “pizzini”, fogli con cui Vittori indicava a Mennea le cose da fare. S’erano conosciuti un giorno di luglio sulla pista di Ascoli: leggenda vuole che il Prof lo vide magro, gracile, troppo per poter sfondare nell’atletica. È di qualche tempo dopo la famosa frase, un po’ verità un po’ leggenda, sul «ragazzo che deve mangiare tante bistecche». Ma Vittori si era perfettamente accorto di Mennea, forse stuzzicava il suo orgoglio, lo provocava. Stava cominciando una lunga storia. Non solo le massacranti e ormai proverbiali ripetute sui 150 metri, non solo una “bella” fatica, ma la consapevolezza della sua utilità, per esempio nel far crescere quella “resistenza alla velocità” che fu una carta fondamentale del suo repertorio. Una storia importante. Che Vittori riassunse in un’intervista rilasciata proprio alla Gazzetta, a Pierangelo Molinaro, il giorno in cui arrivò la notizia terribile della morte di Pietro. Il Professore lo definì un “tracciatore”, l’apripista di una nuova strada quando si pensava che la velocità fosse solo una dote naturale. Ma lo stesso Vittori non ridusse mai il loro sodalizio a un sapiente dosaggio delle sgobbate a cui sottoporsi, si rese bene conto che c’era un di più motivazionale: «Fu l’atleta che mi insegnò di più». A volte, però, questa applicazione spasmodica prendeva in contropiede pure lui. «È stato il più grande nemico di se stesso», diceva di Mennea. Ma poi riconosceva che quella voglia di riscatto, quel Sud portato addosso nella testa, nel cuore e nelle gambe, non poteva spingere troppo sul freno.
Il compleanno
Il loro rapporto superò tante tempeste. Rischiarono di perdersi. Come quando Vittori litigò con la Fidal, tornò ad Ascoli, e andò a Montreal, l’Olimpiade della delusione del quarto posto, in forma privata. Gli rubarono un cronometro nuovo di zecca e quell’episodio gli parve come un avvertimento, basta, finisci, che cosa sei venuto a fare. Pietro a quel punto gli regalò il suo. Ma quei giorni furono duri, sofferti, complicati. Si separarono, invece, dopo Messico, dopo Mosca, dopo il primo ritiro e dopo il secondo. Il momento, 1984, in cui si lasciarono. Nell’ultimo Mennea che prova ad allungarsi la carriera, non c’è più Vittori. Poi, però, un giorno, siamo nel 1993, riceviamo una telefonata di Pietro: «Vieni alla mia festa, c’è pure il Professore». Ed eccoli lì, deposte le armi, in quel bell’appartamento affacciato sui campi, all’altezza della Cassia, che comincia a uscire da Roma. Ci fu come un filo di imbarazzo quella sera dietro le torte e gli scherzi. Mennea e Vittori faticavano a dialogare fuori dalla loro pista, dai loro silenzi, dalle loro lontananze. Forse per questo si sentivano poco. Vittori non sapeva della malattia di Pietro. Alla camera ardente, al Coni, lo vedemmo sfilare davanti alla bara. Il suo sguardo, sempre proteso verso l’interlocutore come dovesse tuffarsi sul traguardo, sembravano esprimere una luce strana, quasi un desiderio di dirsi ancora delle cose con Pietro. Magari dandosi finalmente del tu.