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 2021  febbraio 27 Sabato calendario

Biografia di Luciano Ligabue raccontata da lui stesso


Nel secondo semestre dell’era pandemica Luciano Ligabue ha scritto alcune nuove canzoni. In una sola anima ha ricompreso molte cose. Il periodo non è stato dei migliori. Ma lui, che con una certa maniacalità crede nei numeri, ha estratto il sette. Per alcuni simbolo della completezza e della conoscenza aurea: sette le note o le stelle dell’Orsa maggiore, sette i colori dell’arcobaleno o dei chakra. Per lui rappresenta il ripetersi di misteriose occorrenze matematiche: 77 brani della sua vita raccolti in un album, 7 inediti; ma anche, volgendo lo sguardo al passato 77 poesie raccolte nelle Lettere d’amore nel frigo. Oggi nel frigo vorremmo trovarci i vaccini.
Ci sentiamo per telefono, il timbro della voce inconfondibile si fa largo nella calma di un pomeriggio domenicale.
Come vedi questa storia dei numeri?
«È una forma di conoscenza. Non c’è bisogno di scomodare la cabbalà o Fibonacci per intuire quanto i numeri segnino la nostra vita. Oggi, non si fa che parlare di algoritmi che ci determinano e che cos’è un algoritmo se non appunto una combinazione numeraria? Quanto a me, continuo a notare cose strane nella mia famiglia.
Siamo tutti nati negli anni tondi: mia nonna venne al mondo nel 1900, mio padre nel 1920, io nel 1960, mio fratello nel 1970. I primi trent’anni della mia vita ho solo ascoltato musica facendo mille mestieri, negli altri trenta ho suonato professionalmente, anche se non ho mai vissuto la musica come un mestiere, ma come una passione».
Non sei proprio stato un enfant prodige.
«Ho cominciato tardi a fare musica. La prima volta che ho suonato con una band avevo 26 anni. A 27 il primo concerto in un circolo culturale a Correggio. Salimmo su una pedana improvvisata alle quattro del pomeriggio, un’ora in cui di solito nel mio paese si fanno le tombolate».
Che accoglienza riceveste?
«Suonammo davanti a una settantina di amici e conoscenti. Tutta la timidezza che mi portavo addosso da anni, sparì sulla pedana. Mostrai una sicurezza che non avevo nella vita. Fu una rivelazione per me e per gli altri».
Fino a quel momento cosa avevi fatto?
«Lavori stagionali, raccogliendo frutta in campagna, il metalmeccanico e perfino il dj in una piccola radio locale».
La musica com’era entrata nella tua vita?
«Nelle nostre terre emiliane la musica ci appartiene come noi apparteniamo ad essa. Forse abbiamo l’alibi della nebbia che ci costringe a immaginare e a inventare storie. Io la musica l’ho sempre ascoltata e amata. In modo caotico, per tutta l’adolescenza. Poi mio padre mi regalò una chitarra. Tutto mi sarei aspettato da lui tranne quel dono inatteso».
Perché inatteso?
«Dovrei raccontarti di un uomo che sognava in grande dentro un orizzonte troppo piccolo».
Prova a farlo.
«Mio padre si chiamava Giovanni, a volte ci raccontava di imprese più grandi di lui. Io e mio fratello lo ascoltavamo rapiti, mentre mia madre disapprovava.
Prese in gestione dei locali dove si ballava il liscio, ma si suonava anche musica meno tradizionale. Al Tropical, un postaccio, a Rovereto sul Secchia, si affacciarono i Nomadi, e venivano anche certi cantautori nazionali. Lì sentii suonare Ivan Graziani. Ma il primo concerto che ascoltai fu quello di Lucio Dalla al Foxtrot di Carpi. Mio padre mi spinse a chiedergli l’autografo. Dalla fu gentile e disponibile con un timidissimo dodicenne».
Sentivi che quella era la tua strada?
«Non da percorrerla, soprattutto allora. E poi c’era il monito di mio padre che aveva sotto gli occhi le orchestrine del liscio con cui lavorava, cogliendone tutta la provvisorietà: le macchie sui gilè sgargianti e la fatica dei suonatori a cottimo. “Cosa vuoi fare Luciano, cantare? Ma trovati un mestiere serio”, mi diceva. E poi, così, senza nessuna giustificazione, arrivò la chitarra in dono per i miei 15 anni».
Che musica ti piaceva?
«Era il periodo delle radio libere e dei cantautori che scimmiottavo, componendo canzoni che non mi somigliavano. Poi scrissi un testo che raccontava il mio sabato sera e sentii che quella canzone aveva il tono giusto. Oltretutto, mi sembrò di poterla accostare al mondo di uno scrittore che amavo: Pier Vittorio Tondelli, anche lui di Correggio. Tutto quello che avevo sotto gli occhi, lui lo aveva reso interessante con i suoi libri».
Quali scrittori hai amato?
«A parte Tondelli, Dostoevskij e in particolare Delitto e castigo, un vero trattato sul senso di colpa. Da comunista e cattolico praticante, ci ritrovai tutto me stesso. Ho avuto anche un’ossessione per Kafka, da cui mi sono liberato per coltivare un senso di speranza. Ho amato alcuni americani: Kerouac, Philip Roth e soprattutto Carver».
Comunista e cattolico, spiegati.
«Provengo da una famiglia comunista. Ma fin dall’adolescenza, sono andato in chiesa per soddisfare un bisogno spirituale. Ero un timido alla ricerca di qualche certezza. Gli amici mi guardavano in modo strano. Forse non capivano o ero io a non farmi capire».
Sei ancora cattolico?
«Avendo praticato seriamente, è difficile che possa aver smesso di esserlo del tutto. Ma ho capito che una religione non si fonda sul dolore. Quando entravo in chiesa, certe liturgie, o certe immagini, come la corona di spine, mi turbavano profondamente. Non è possibile, pensavo, che una religione debba esibire tanta sofferenza. Non è giusto che il bisogno di credere sia condizionato dalla paura di Dio».
Oggi cosa vuol dire Dio per te?
«Per molto tempo me lo sono raffigurato con la barba bianca e c’ho scritto sopra anche una canzone in cui dicevo che sarebbe venuto il giorno in cui avrei risolto il dubbio se esisteva o no».
Lo hai sciolto?
«Lui non c’è, ma se ci fosse lo immaginerei con la saggezza di un vecchio provinciale».
Com’è il mondo visto da Correggio?
«Il paese dove sono nato e dove vivo ha i caratteri reggiani della laboriosità e del pragmatismo. Possiede la virtù di fare ogni cosa con il sorriso. Qui per decenni tutto ha funzionato benissimo. Le cose oggi sono un po’ mutate, ma resto un provinciale, anche se di successo».
Cosa intendi con provinciale?
«Dal mio punto di vista significa essere in un posto dove gli affetti sono a portata di sguardo; dove la gente quando ti incontra e chiede “come va?”, ti fa capire che non è una domanda oziosa ma vera e sentita; dove un tempo certamente più lento ti lascia lo spazio per pensare. Mi rispecchio in questo mondo e con me i trent’anni di carriera e i sessanta di vita».
I tuoi esordi, dicevi, arrivano tardi. E sono costellati
da molti rifiuti.
«Al mio primo album ci furono parecchi no dalle case discografiche. Provai sconforto ma non rassegnazione. Mi riconoscevo pienamente in quello che avevo realizzato».
Avevi battezzato quell’album “Ligabue”. Non era un po’ eccessivo?
«Forse sì, tanto è vero che volevo chiamarlo Non è obbligatorio essere eroi. Il mio manager di allora, Angelo Carrara, mi disse: guarda che hai un cognome che resta impresso. Fu una trovata di marketing e funzionò. In modo del tutto inaspettato e pazzesco, in quel 1990, trovai il successo».
E non ti sei fermato. Hai perfino scritto libri e realizzato film. Cosa vuoi dimostrare?
«Mi piace pensare di aver avuto la sfrontatezza e l’incoscienza di farlo e riesco anche a capire i pregiudizi di chi pensa: ma come si permette un rocker di invadere il campo della letteratura e del cinema».
Ma non ti hanno dissuaso.
«Invadere sfrontatamente altri campi non voleva dire che non ne avessi rispetto. Dopotutto, il pubblico e la critica letteraria e cinematografica, hanno accolto favorevolmente queste mie prove».
Ma cosa vuol dire per te scrivere un romanzo o girare un film?
«Scrivere un libro per me è l’evoluzione del linguaggio della metrica. Un film è diverso: più noia e fatica, ma anche vacanza rispetto alle canzoni. L’impegno musicale mi costringe a qualche pausa».
A un certo punto della tua carriera hai pensato di smettere. Perché?
«Ero stato investito da un successo troppo grande».
Che anno era?
«La fine del 1999. Venivo da una serie di straordinari riconoscimenti: gli album Buon compleanno Elvis e Su e giù dal palco, il romanzo Fuori e dentro il borgo e il film Radiofreccia. Mi trovai, di colpo, nell’incapacità di gestire quell’enorme consenso. Faticavo a tollerare chiunque si sentisse in dovere di esprimere un’opinione su di me.
Magari era solo una mia paranoia, ma soffrivo all’idea che tutto quello che si raccontava di me fosse più la proiezione di ciò che rappresentavo ai loro occhi, che non quello che ero veramente».
E come hai reagito?
«In un primo momento ho pensato di mollare. Poi mi sono chiesto se fossi davvero disposto a rinunciare a
tutto, in primo luogo ai concerti. E non era quello che desideravo».
In quel periodo hai scritto “Una vita da mediano” c’entra qualcosa con la tua crisi?
«Quella canzone fu la reazione all’enorme senso di colpa che provavo per il mio successo. Tracce mai risolte del mio cattolicesimo e comunismo. Mi sentivo in colpa! E allora ho scritto, quasi scusandomi del successo, Una vita da mediano».
Non avevi previsto l’accoglienza entusiasta dei tuoi fan.
«Lo so, è paradossale. Senza volerlo è sembrata un’esibizione di falsa modestia».
Qualche anno fa hai rischiato di troncare la carriera per colpa della voce.
«Fu a causa di una micidiale influenza che si era trasformata in laringite. Ho sempre cercato di dare il massimo nei concerti. C’era un lungo tour da affrontare, mi riprendo e, bene o male, lo porto avanti. Poi una sera, al Forum di Assago, il giorno dopo il mio compleanno, arrivò il crollo. Feci il concerto più brutto della mia vita.
Credevo di prendere una nota e ne usciva un’altra. Mi vergognavo di me, chiesi scusa davanti a 13 mila persone.
Il pubblico capì il dramma. Il giorno dopo scoprirono un polipo alle corde vocali. Fui operato a Lione e tutto è andato per il meglio».
Cosa hai pensato in quei momenti?
«Ero abbastanza disperato. Disperato perché non sapevo con che voce mi sarei ritrovato. Comunque dovetti attendere più di sei mesi prima di riprendere i concerti. In quel lungo intervallo chiamai Domenico Procacci, produttore della Fandango, e insieme realizzammo il film
Made in Italy, la prosecuzione di un album che era nato dai miei concerti negli Stati Uniti».
Dieci anni prima eri uscito con l’album “Buonanotte Italia”. Cosa ti ispira questo paese?
«Non smetterò mai di amarlo e al tempo stesso di detestare la sua incapacità di funzionare».
Un paese oggi smarrito. Un anno fa avresti dovuto festeggiare i tuoi 60 anni e i 30 di professione con un grande concerto. Poi è arrivata la pandemia. Quel concerto è spostato al giugno di quest’anno. Come hai vissuto questo tempo?
«Il mio quotidiano non ne è uscito stravolto. Sono abituato a lavorare a casa, nei miei “covi”. Le cose che maggiormente mi mancano sono i concerti, questo è ovvio, perché è la parte in cui mi diverto di più, e poi gli amici. C’è questo senso di privazione di una libertà che è, innanzitutto, la libertà di stare in mezzo agli altri. In questi casi avere la risorsa della creatività è una forma di salvezza. Fare canzoni, scrivere libri, girare film è confidare nel futuro, pensare che quello che fai, prima o poi, arriverà a qualcuno. Ma so anche che è difficilissimo prefigurare questo futuro. Gli eventi di questi mesi ci fanno intravedere che c’è un’occasione da non perdere.
Ognuno dovrà fare la sua parte per realizzarla».