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 2021  febbraio 27 Sabato calendario

Intervista a Giovanna Melandri. Parla del Maxxi


Non sembrano dieci anni, ma un secolo fa. Dà questa impressione percorrere la galleria dove si srotola Una storia per il futuro, il racconto lungo dal 2010 al 2020 della prima decade di attività del Maxxi. La mostra del compleanno, insomma, che – inaugurata in ritardo per cause di forza maggiore – mette in fila progetti e utopie lungo un tunnel interrotto da stanze colorate, con l’effetto a metà tra un’odissea nello spazio e un atlante di Aby Warburg.
«Dobbiamo rinforzare la qualità del guardare – dice il direttore artistico e curatore Hou Hanru –. La pandemia ci obbliga a un processo di rinegoziazione radicale. Il visitatore, oggi, corre il rischio di trovarsi da solo con le opere. Chi inventa le mostre deve tenere in considerazione anche questo». Al museo delle arti del XXI secolo – più che ai bilanci, agli introiti mancati che segnano meno 2 milioni e 200 mila euro e che sono la punta dell’iceberg della crisi dell’ecosistema dei musei italiano – si pensa al futuro. E l’anniversario, allora, diventa l’occasione per ragionare su quel che sarà del sistema dell’arte contemporanea. In questa parte del quartiere Flaminio di Roma, dove l’architettura di Zaha Hadid è ormai familiare al paesaggio urbano, c’è ancora un’area non costruita di 3000 metri quadri che affaccia su via Masaccio. «Qui abbiamo intenzione di far nascere tre servizi fondamentali in strutture architettoniche sostenibili – spiega la presidente del Maxxi Giovanna Melandri – Ovvero: un hub per l’innovazione digitale, un nuovo spazio per i depositi del museo che sia visitabile e un laboratorio di conservazione e restauro del contemporaneo che può assolvere a una funzione essenziale per l’intero sistema». Il Maxxi guida un consorzio di sei partner, promuovendo il progetto Creative Digital Innovation Hub, scelto dai ministeri dello sviluppo economico, dell’università e dell’innovazione tecnologica per partecipare alla gara bandita dalla Commissione Europea con lo scopo di costituire la rete degli Edih (European Digital Innovation Hubs), che deve favorire la trasformazione digitale del processo produttivo, trasferendo competenze alle imprese e alla pubblica amministrazione. «Lo scopo è di formare una piattaforma di interazione tra arti, architettura e rigenerazione urbana applicata al digitale – puntualizza Melandri –. Ci candidiamo a essere un centro di eccellenza, rispondendo all’idea di istituire una nuova Bauhaus europea evocata da Ursula von der Leyen».
La pandemia ha dimostrato che il modello classico di museo non basta più.
«Sì, siamo stati chiusi, ma non spenti.
Durante il lockdown ci siamo trasformati in un broadcasting con oltre 15 milioni di visualizzazioni in tre mesi e contenuti prodotti per noi.
Non solo mostre online. Abbiamo in eredità questo capitale e stiamo pensando a come svilupparlo. Il passo successivo sarà offrire contenuti digitali a pagamento».
Musei più piccoli e locali hanno reagito differenziando l’offerta e cementando il rapporto con il pubblico, come nel caso della Gamec di Bergamo. Un progetto grande e internazionale come il Maxxi come ha risposto dopo la chiusura?
«Metà del nostro pubblico era internazionale. A maggio segnavamo – 90%. Ma la chiusura al traffico interregionale e internazionale ci ha dato l’opportunità di approfondire il rapporto con Roma. A ottobre, l’ultima domenica prima di chiudere di nuovo, abbiamo registrato 1200 ingressi e questo nell’assenza di un coordinamento con l’amministrazione capitolina.
Abbiamo tagliato il budget di oltre due milioni, senza tagliare sulla funzione sociale ed educativa. Meglio una mostra e un’opera da acquistare in meno. Però, diciamolo, non ha avuto senso tenere chiusi il sabato e la domenica i musei in zona gialla».
Anche il “mostrificio” è una delle vittime dell’epidemia.
«Produrre ed esportare le mostre fa la differenza per un museo. Qui gli allestimenti sono frutto della ricerca interna: la retrospettiva su Aldo Rossi, che si inaugura il 10 marzo, si inserisce in linea di continuità con il lavoro fatto su Gio Ponti così come Buone nuove, a novembre, approfondirà la presenza femminile nell’architettura del Novecento grazie alle ricerche fatte nel nostro archivio dalla direttrice Margherita Guccione. Il “mostrificio” non ci interessa: abbiamo rinunciato a tante mostre e a tanti soldi. Per questo abbiamo bisogno di autonomia e di un modello di partnership con il privato che non interferisca con le scelte curatoriali».
Con la crisi molti partner si sono sfilati, è accaduto anche nei grandi musei americani.
«Abbiamo perso sponsor importanti; la conferma del sostegno di chi c’è ancora vale doppio così come quella degli amici del Maxxi, che ci aiutano ad acquistare opere che spesso fanno parte dei nostri progetti: penso a Maria Lai e a Maurizio Nannucci».
Per gli acquisti ci sono anche i finanziamenti pubblici.
«Sono due milioni all’anno, il 50% del piano nazionale dell’arte contemporanea voluto dal ministro Franceschini. In dieci anni, il valore della nostra collezione è più che triplicato: è un patrimonio di tutti gli italiani. Questi fondi ci permettono di avere una pianificazione che fa bene all’intero sistema dell’arte in Italia».
Fare rete non è sempre un’impresa riuscita in Italia.
«Ma noi vogliamo fare rete: è nella missione di un polo nazionale.
Stiamo collaborando con la Triennale di Milano e riannodando i fili con la Biennale di Venezia. La mostra dell’artista cinese Cao Fei sarà in tandem con il Pecci di Prato. Grazie a un accordo con la Banca d’Italia, gestiremo per qualche mese la casa romana di Giacomo Balla in via Oslavia, che sarà aperta al pubblico».
Quando apre il Maxxi L’Aquila?
«Siamo pronti. La collezione curata dal direttore del Maxxi Arte Bartolomeo Pietromarchi è allestita da sei mesi a palazzo Ardinghelli.
L’augurio è di aprire ad aprile, per l’anniversario del terremoto, e di diventare un moltiplicatore di progettualità in un territorio già ricco di ricerca dove fare incontrare l’arte e la scienza».
Le mostre bastano ancora a raccontare il mondo?
«Se guardiamo alle esposizioni di questi dieci anni, ci sono già i temi che stiamo affrontando: dall’allarme ambientale alla crisi della democrazia. La pandemia ha fatto sì che anticipassimo a ottobre la mostra di Sebastião Salgado sull’Amazzonia.
Le fotografie di quelle popolazioni, minacciate dal virus e portatrici dell’antica sapienza di coabitare con il pianeta, ci parlano oggi più che mai. Gli artisti vedono tutto prima».