Corriere della Sera, 27 febbraio 2021
Morto Peter Gotti, l’ultimo padrino
Massimo Gaggi
NEW YORK Non è la fine della Mafia americana ma la morte in carcere di Peter Gotti segna sicuramente la fine di una dinastia criminale – quella dei Gotti, appunto – che negli anni Ottanta aveva preso lo scettro della Mafia di New York dalla famiglia Gambino. Detenuto dal 2003 per una condanna a 25 anni, Peter, 81 anni, malato da tempo (cuore, pressione alta, un tumore, parzialmente cieco) aveva chiesto invano il trasferimento agli arresti domiciliari un anno fa e di nuovo nel dicembre scorso. Ma, nonostante il peggioramento delle sue condizioni di salute e la forte diffusione del coronavirus nel penitenziario di Butner, in North Carolina, nel quale era detenuto (lo stesso nel quale rimarrà rinchiuso fino al 2037 il celebre truffatore Bernie Madoff), i giudici non si sono mostrati clementi: consideravano l’ultimo dei Gotti ancora socialmente troppo pericoloso, capace di organizzare racket criminali.
Severità eccessiva secondo gli avvocati e anche secondo gli esperti di Mafia che non hanno mai considerato Peter un vero boss, anche se aveva ereditato la guida della famiglia criminale dal fratello John quando questi fu arrestato e condannato all’ergastolo nel 1992. Considerato di animo troppo gentile dai suoi luogotenenti, Peter fu un capo debole: cercando paragoni cinematografici, come avviene spesso per le storie di Mafia, qualcuno lo aveva avvicinato alla figura di Fredo nel Padrino, il figlio più debole di Don Vito Corleone.
Ma, a differenza di Fredo, rancoroso e vendicativo perché scavalcato da altri in famiglia, Peter è sempre rimasto un soldato leale. Non è, però, diventato un vero leader né ha eguagliato l’audacia e la ferocia del fratello John che conquistò la guida del clan Gambino nel 1985 ammazzando il suo capo, Paul Castellano e il suo vice, Thomas Bilotti, caduti in un agguato all’uscita di Sparks, celebre steakhouse di Manhattan. Parcheggiato in una Lincoln dal lato opposto della strada, John Gotti volle assistere di persona all’assassinio, portato a termine da quattro suoi uomini.
Come Fredo
Paragonato alla figura di Fredo nella saga con Al Pacino, il figlio più debole di Don Corleone
Peter, che lavorava per una società privata di raccolta della spazzatura, uno dei business della Mafia, e svolgeva incarichi minori come raccogliere il pizzo dai negozianti, quando il fratello divenne il capo della più potente famiglia criminale si vide assegnare ruoli sempre più importati. Ma il regno di John finì sette anni dopo, nel ‘92, quando fu condannato all’ergastolo per l’omicidio Castellano. Decisiva la testimonianza di Salvatore «Sammy the Bull» Gravano: vice di Gotti, quel giorno era in auto con lui ad assistere all’esecuzione. Arrestato, anni dopo, per altri reati, tradì il suo capo per ottenere uno sconto di pena.
Peter si ritrovò così tra le mani lo scettro di capo dei capi, inizialmente eterodiretto dal carcere dal fratello (che morirà di tumore dieci anni dopo, dietro le sbarre). Ma non aveva la capacità organizzativa e la durezza di John: i suoi luogotenenti erano scontenti anche perché la famiglia criminale dei Lucchese prese, a un certo punto, il sopravvento sui Gambino, approfittando della loro debolezza. Peter, poi, finì in carcere poco dopo la morte del fratello.
Simbolo delle sue scarse capacità, ma forse anche motivo della scelta dei giudici di considerarlo ancora socialmente troppo pericoloso, i suoi falliti tentativi di vendicare il fratello uccidendo il traditore, Salvatore Gravano. Lui, sapendo di essere nel mirino, si era rifugiato in Arizona. I due uomini che Gotti aveva messo alle sue calcagna provarono a eliminarlo prima sparandogli con un fucile da caccia, poi con una mina da far esplodere in strada con un comando a distanza. Tentativi tutti falliti, compreso l’ultimo: una lettera-bomba che gli fu recapitata dopo che Gravano era finito in carcere per un traffico di ecstasy.
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Robero Saviano
l vecchio Peter Gotti era molto diverso da suo fratello John. Pietro era schivo, prudente, non aveva nessuna voglia di comandare, Giovanni invece aveva talento naturale per la ribalta. Peter era stato «combinato» mafioso dal fratello alla fine degli anni 80, John da ragazzino aveva un unico pensiero, poter parlare direttamente a don Carlo Gambino, il numero uno. E ci riuscì. I Gotti erano napoletani originari di San Giuseppe Vesuviano, padre bracciante perennemente disoccupato, madre lavoratrice, che portava avanti la numerosissima nidiata di 11 figli tutti gettati al mondo nelle strade di Brooklyn. I Gotti comandarono negli anni 80 la famiglia d’origine siciliana dei Gambino. Ora, non so bene per quale ragione ma non è chiaro — se non a pochi — che Cosa Nostra americana non è come Cosa Nostra italiana. Cosa Nostra italiana è composta da tutte famiglie siciliane (ad eccezione di una famiglia napoletana che siede ai vertici) invece Cosa Nostra in America raccoglie tutti gli italiani criminali in una sola organizzazione indipendentemente dall’origine territoriale: lucani, abruzzesi, pugliesi, siciliani, calabresi, campani. Peter Gotti tenne in mano la famiglia dal 1999 al 2002, quando John prima si ammalò e poi morì in carcere. Poco tempo e molti disastri, il primo quello di non riuscire ad ammazzare Salvatore «Sammy the Bull» Gravano, l’uomo che collaborando con l’FBI smantellò tutto il clan e mise in enorme crisi la gestione di Cosa Nostra americana. Peter pose una taglia su Bull per farlo uccidere, poi ne mise una per avere informazioni su di lui, provò a ragionare se iniziare uno sterminio della famiglia Gravano ma lo bloccarono le altre famiglie, sostenendo che avrebbe solo rafforzato le dichiarazioni del traditore. Peter vide la famiglia Lucchese prendere il sopravvento e tra condanne e pentimenti (dei suoi uomini) ha finito la sua vita in carcere senza riuscire a portare la famiglia ai guadagni del fratello. John Gotti barattò la sicurezza del suo potere con la notorietà, a metà anni Ottanta il suo guadagno personale era di 15 milioni di dollari l’anno ma la struttura di Cosa Nostra, le cinque famiglie (Gambino, Lucchese, Genovese, Bonanno, Colombo) iniziavano ad avere moltissimi processi e c’era una ragione: le carriere politiche dei procuratori di New York si misuravano su quanti mafiosi arrestavano — cosa senza precedenti nella storia democratica americana — e quindi i clan dovevano mostrarsi forti nonostante gli ergastoli. Mostrarsi, non esserlo. Gotti optò per una visibilità che lo rese bersaglio ma rafforzò la leadership dei Gambino in tutto il mondo. Dopo un attentato al mafioso beneventano DeCicco nel 1986 molta luce mediatica si accese a New York sulle faide interne alla famiglia Gambino. DeCicco fu fatto saltare in aria con una bomba, Gotti credette in un primo momento che fossero gli «zip», ossia non mafiosi italoamericani ma i nuovi mafiosi siciliani arrivati dall’Italia per curare loro giri (è sempre permesso ai mafiosi italiani di agire su qualsiasi territorio senza dover informare alcuno). Cosa Nostra americana a differenza dei cugini italiani non usava bombe, non voleva rischiare morti innocenti, così come non toccava giudici che andavano comprati e non toccava giornalisti che considerava ininfluenti negli Usa dove l’opinione pubblica andava corrotta non influenzata. DeCicco invece era stato ucciso dai Lucchese, ma la notizia fondamentale per i Gambino fu che Time mise in copertina in un progetto artistico curato da Andy Wharol proprio lui, John Gotti. Fu una delle copertine più vendute di sempre, e John divenne il boss più famoso al mondo, si presentava come lo immaginavano: vestiti costosi, eleganti e italiani. Ben sbarbato (Cosa Nostra odiava barba e baffi) con i capelli curati da un barbiere quotidianamente. Gotti divenne il mito del boss che non si nascondeva dietro l’ipocrisia, i soldi si fanno sempre facendo crimine l’importante è ridistribuire a chi ha bisogno e rispettando le regole d’onore. Così se la raccontava, aveva fama di essere feroce con i nemici e benevolo con i deboli. In realtà John fu insopportabilmente autoritario come Peter suo fratello sapeva bene, non aveva nessuna visione liberal che invece ostentava nelle interviste. Razzista sin nel midollo come tradizione mafiose voleva, l’odio per gli afroamericani rimase prioritario, li chiamava «’e tizzun’» ossia i tizzoni (di carbone) in dialetto napoletano. I Gotti erano antisemiti, non avevano mai sopportato che le organizzazioni italiane avessero permesso negli anni 40 che la mafia ebraica di NYC si fondesse con loro. Jack Newfield in un necrologio sulla rivista New York descriveva così il boss: «John Gotti era il boss divo innamorato di se stesso, equiparava il suo ego a tutta Cosa Nostra. Era un ritorno al passato dei primi criminali narcisisti, Bugsy Siegel e Al Capone, che non capivano i confini ed erano dipendenti dalla pubblicità». Peter è stato solo il fratello del re, quello che veniva dopo, quello che contava solo perché poteva arrivare prima degli altri a John. Insomma non è morto Peter Gotti, ma è morto il fratello di John Gotti.