la Repubblica, 27 febbraio 2021
22QQAFM11 Intervista ad Anthony Horowitz
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Un manoscritto, avvolto in un romanzo, dentro un giallo. Parafrasando la nota massima di Churchill sull’Unione Sovietica, l’ultimo libro di Anthony Horowitz è un funambolico gioco di specchi, una scatola magica dentro la quale si aprono sempre nuovi enigmi, una labirintica storia nella storia. Nulla di sorprendente per uno scrittore chiamato in passato, dagli eredi dei rispettivi autori, a proseguire la saga di Sherlock Holmes e di James Bond, vestendo per così dire i panni di Arthur Conan Doyle e di Ian Fleming, e il cui formidabile eclettismo lo ha portato a percorrere con successo ogni filone letterario, incluse le sceneggiature di film e serial tratti dalle sue numerosissime opere. Nella nuova impresa, I delitti della gazza ladra (pubblicato in Italia in questi giorni da NeroRizzoli), Horowitz entra nella parte di un altro capostipite del noir anglosassone, Agatha Christie, esibendo se possibile perfino più trucchi del mestiere, colpi di scena e false piste di quante ne confezionasse la madre di Poirot e Miss Marple. Nel puzzle di questo “murder mistery”, come li chiamano in Inghilterra, c’è la responsabile di una piccola casa editrice, che riceve la bozza dell’ennesimo thriller di un famoso romanziere, nel quale un infallibile investigatore seriale dà la caccia a uno spietato assassino in un sonnolento villaggio di campagna. Solo che a un certo punto l’editrice si accorge di essere finita lei stessa dentro la trama, la soluzione del delitto può cambiarle la vita e il compito di scoprire il colpevole spetta in un certo senso a chi tiene il volume fra le mani: il lettore. Maestro del genere in tutte le salse, l’ultima fatica del 65enne narratore inglese viene indicata in Inghilterra come modello di una nuova moda: il “comfy thriller”, alla lettera il giallo confortevole, da divorare sorseggiando una tazza di tè o un bicchiere di sherry, comodamente seduti in poltrona, magari mentre fuori infuria la tempesta. In poltrona c’è lui, quando risponde alle domande di Repubblica al telefono, in omaggio alla distanza sociale resa obbligatoria dal Covid, anche se poi scopriamo di essere vicini di casa.
Cominciamo da una curiosità, Anthony: nella prima pagina, l’editrice dice di essere stata alla Fiera del Libro di Bologna. Come mai?
«Perché ci sono stato molte volte, per la Fiera e per turismo. Una città dove torno sempre volentieri. Mi sono divertito a inserire nel romanzo tanti particolari autobiografici, sebbene soltanto io possa scoprirli».
Qui e là la protagonista si rivolge direttamente al lettore: si è per caso ispirato a Italo Calvino in “Una notte d’inverno un viaggiatore”?
«Vorrei poter rispondere di sì, trattandosi di un libro fantastico e di un grande autore. Ma era quasi automatico, in un romanzo su una editrice che riceve il manoscritto di un romanzo, farla dialogare con il destinatario del suo lavoro: ossia il lettore».
E da dove viene l’ispirazione per un noir che sembra uscito dal cappello di un prestigiatore?
«Dalla passione che fin da piccolo ho coltivato per la magia, l’illusionismo, i passaggi segreti.
Pensavo a una storia così da quindici anni e ci è voluto tutto questo tempo per trovare l’uscita dal labirinto: la chiave per legare tutto insieme e raccontarla».
Le sta bene l’etichetta di “comfy thriller”, in un’epoca di noir sempre più efferati?
«Premesso che mi piace leggere anche i thriller efferati, come quegli scandinavi, pieni di serial-killer, litri di sangue e orribili torture, quando sono io a scrivere preferisco una fiction più gentile e tranquilla. Per cui sì, l’etichetta di thriller confortevole, o meglio ancora che conforta, mi va bene».
Qualche critico, sui giornali di Londra, sostiene che con questo suo nuovo libro segue le orme di Agatha Christie.
«Ne sono onorato, perché Agatha era una maestra del meccanismo perfetto: in cui all’inizio tutto è possibile e alla fine si capisce che la soluzione del mistero poteva essere soltanto una, quella indicata dall’autore.
Ammetto che i suoi gialli mi sono serviti da esempio, insieme a quelli di Sherlock Holmes: in entrambi spesso non si leggono descrizioni di morti violente, talvolta non c’è nemmeno un assassino. Eppure, la tensione nasce lo stesso dall’atmosfera, dal carattere dei personaggi, dalla situazione. Il delitto, come capita spesso nei gialli, è una scusa per parlare d’altro».
A proposito di Sherlock, come è stato scrivere nuovi romanzi della saga del padre di tutti i detective e poi anche dell’agente 007, il padre di tutte le spie?
«È stata in entrambi i casi una grande sfida: confrontarmi con scrittori come Conan Doyle e Fleming, molto più bravi di me, entrati nella storia del giallo. Due grandi intrattenitori e creatori di avventure. Ho cercato di farlo con umiltà, in modo da non deludere i milioni di fan che hanno nel mondo, aderendo a quello che il pubblico si aspetta da un romanzo di Sherlock Holmes o di James Bond. Il risultato dice che li ho soddisfatti. E così facendo penso di essere diventato uno scrittore migliore».
E a proposito di scrivere: come può scrivere così tanto? Ormai ha superato i cinquanta titoli.
«Sono stato un bambino e un ragazzo un po’ solo, per cui i libri diventarono il mio rifugio. A 10 anni avevo già cominciato a scrivere racconti, a 22 ho pubblicato il primo libro, da allora vado avanti al ritmo di uno o più all’anno. Da tempo non sono più un solitario, sono sposato, ho due figli e una cerchia di amici, amo tutte le cose che offre Londra, dal teatro ai ristoranti, ma certamente trascorro più parte del mio tempo a scrivere che a vivere».
Allora che consiglio darebbe, dall’alto della sua esperienza, a chi sogna di diventare uno scrittore?
«Il primo consiglio, per chi vuole scrivere, è semplice: scrivere! Prendere una penna o sedersi al computer, e buttare fuori quello che uno ha dentro. Se poi oltre che scrivere uno sogna di pubblicare, il secondo consiglio è credere in sé stessi. Pubblicare un libro è diventato più difficile rispetto a quando ho cominciato io. Gli editori hanno meno pazienza, non rischiano. Ho pubblicato una decina di romanzi, prima che uno diventasse un best-seller: adesso il lusso di una lunga gavetta è più raro. Per cui, se davvero si vuole pubblicare, non bisogna deprimersi davanti a un rifiuto, occorre insistere. E sperare nella scintilla che George Orwell descrive in Fiorirà l’aspidistra, il libro che ho amato di più e che mi ha incoraggiato ad andare avanti».