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 2021  febbraio 27 Sabato calendario

Da martedì Augias smette di rispondere alle lettere. Un’intervista a lui e una a Francesco Merlo che lo sostituisce

Perché hai deciso di lasciare?
«Dopo un periodo così lungo è inevitabile.
Vent’anni vogliono dire seimila lettere e altrettante risposte. Il rischio è quello di ripetere se stessi. E io francamente volevo evitarlo. Poi la rubrica delle lettere comporta un impegno vero.
Sono avanti negli anni e vorrei finire un lavoro sul passaggio di Roma dal paganesimo al cattolicesimo. Per farlo ho bisogno di tempo».
Hai definito la rubrica delle lettere come un oblò attraverso il quale scrutare il sentimento profondo del paese. In questi vent’anni come hai visto cambiare gli italiani?
«Ne ho visto mutare soprattutto lo stato d’animo. Quando presi il timone della rubrica, nel 2001, i lettori era molto curiosi, appassionati di politica e cultura. La Repubblica di Ezio Mauro, anche grazie a giornalisti come Giuseppe D’Avanzo, era un giornale di netta opposizione al berlusconismo, soprattutto per ragioni morali. E il pubblico partecipava a questa battaglia con spirito civile, animato da una fiammella vitale. Dopo la grande crisi economica del 2008, si sono manifestati altri sentimenti quali paura, inquietudine, sfiducia nel futuro. Uno smarrimento aggravato oggi dalla pandemia».
Sono cambiati anche i temi?
«Ho smesso di ricevere lettere sul rapporto tra Stato e Chiesa, molto sentito quando il cardinal Ruini presiedeva la Conferenza episcopale italiana come se ancora regnasse il papa re. Non dimenticherò mai la pressione dei vescovi sulla procreazione assistita o la negazione dei funerali religiosi a Piergiorgio Welby. In quei passaggi i lettori erano molto reattivi».
Tu hai capito chi sono i lettori di “Repubblica”?
«Molti sono professori di scuola, i famosi “quadri” medi-alti a cui si rivolgeva il neonato quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Anche nel prosciugamento fisiologico che ha colpito tutta la carta stampata, credo che lo zoccolo duro rimanga la borghesia colta, quella che alle elezioni continua a votare il partito democratico».
Perché si scrive ai giornali?
«Togliendo di mezzo i grafomani – alcuni bravissimi – le spinte essenziali sono quelle di denunciare e di confidarsi, anche su temi personali. Ogni giorno, per vent’anni, oltre al carteggio reso pubblico, ho risposto a una decina di mail che mi interpellavano sulla scuola dei figli o sui comportamenti coniugali. So che dirlo mi potrebbe esporre a pernacchie, ma capelli bianchi e una certa pacatezza del carattere mi hanno reso un personaggio affidabile, molto amato».
È innegabile. Ti scrivono anche i ragazzi.
«Sì, ragazzi e ragazze. Forse scatta la sindrome del nonno».
C’è una differenza tra le lettere maschili e quelle femminili?
«Le donne parlano molto di donne, soprattutto negli ultimi anni ho avvertito un’insistenza di genere, mentre gli uomini non parlano mai di una condizione maschile. Anche questo è comprensibile».
Come scegli le lettere?
«Leggo le prime righe. Se mi scatta la scintilla, ossia mi viene subito da rispondere, la metto da parte. In genere ricevo circa centocinquanta lettere ogni giorno, ma buone sono solo una ventina.
Pubblicabili quattro».
Hai sempre parlato di tutto, anche della
morte.
«Alla mia età, sempre più spesso cominci a pensare non alla morte ma al morire, a come si muore: in un ospedale intubato tra i bip bip o patriarcalmente circondato dagli affetti famigliari? Parlare di morte serve a esorcizzarla. I lettori me ne hanno parlato e io ho risposto».
A un lettore moribondo hai risposto con una lettera di Seneca a Lucilio. Nelle tue risposte non mancano mai i libri come stelle polari.
«Conosco i miei limiti. So di non avere la zampata spesso felicissima di un Michele Serra, capace di prendere un argomento e farlo girare sulle punte delle dita. La zampata è una virtù anche di Francesco Merlo, il mio successore a cui faccio tanti auguri. Io ho cercato di svolgere un servizio utile, indicando i libri che potessero essere di aiuto al lettore».
Qual è la funzione della rubrica delle lettere?
«Io ne indicherei due. La prima è dare voce ai lettori, soprattutto quando esprimono dissenso dalla linea del giornale. L’ho sempre fatto, mi è capitato anche di recente, nella massima libertà da parte del direttore Maurizio Molinari. L’altra funzione è quella di fidelizzare i lettori: stabilisci una corrispondenza in un paese in cui l’attitudine alla risposta è rara».
Rispondi anche a chi insulta?
«Sì, qualche volta. Se rispondi pacatamente il lettore ti mostra gratitudine. Questo ti dimostra due cose: quanto sia utile cercare sempre il dialogo. E quanto alcune persone non si rendano conto del valore semantico delle parole scelte. In questo senso una rubrica delle lettere può avere anche una funzione di educazione lessicale. Ma cerco di dirlo a bassa voce, sempre per evitare le famose pernacchie».

***


Che cosa ti ha spinto ad accettare la rubrica delle lettere?
«È un impegno quotidiano che ti costringe a non invecchiare, stando dentro un rapporto di osmosi con i lettori».
Come te li immagini?
«Appassionati, come è nella tradizione di
Repubblica. E libertari e libertini, nel solco tracciato da Eugenio Scalfari: il lettore a cui mi sento più vicino sta dentro la cultura di sinistra, ma senza diventarne mai fanatico».
Tra tanti rubrichisti epistolari hai dei modelli?
«No. Direi piuttosto che ho alcune convinzioni. Nel giornalismo — e tanto più nelle lettere — è un atto di libertà ascoltare e servire il lettore, ma sempre accendendo una luce, mai con il timore di perderlo. Anche questa è una lezione del fondatore: tradisci il lettore se hai l’ossessione di non tradirlo per non perderlo».
Scalfari ha sempre criticato quei direttori che, pur di vendere una copia in più, sono disposti a imbruttire o a involgarire i loro giornali.
«Nel libro che gli abbiamo dedicato, raccontò ad Antonio Gnoli e a me che il "romanzo del giornalismo italiano" prediletto da Benedetto Croce era Vita e avventure di Riccardo Joanna scritto da Matilde Serao. "È abbastanza brutto per tirare cento mila copie, ma si può farlo ancora più brutto": è ciò che dice il direttore guardando il suo giornale disgustato.
Repubblica è sempre andato in una direzione opposta».
La rubrica delle lettere prende forma dalla personalità di chi la tiene. In che modo ti distinguerai dal tuo predecessore Corrado Augias?
«Per vent’anni Corrado è stato la bussola, l’orientamento ritrovato, la rassicurazione.
Come la strada lunga e dritta di Catania, la mia città, un rettilineo che dal mare ti conduce all’Etna. Io mi rispecchio più nel groviglio di vicoletti che poi però sfocia nella via Etnea: credo di rappresentare più lo smarrimento e l’inquietudine, che alla fine trovano la strada. È un onore e un piacere succedergli. E ringrazio Maurizio Molinari per avermi dato fiducia».
Ti è mai capitato di scrivere una lettera ai giornali?
«Da ragazzo le inventavo. Le lettere ai giornali avevano un’intonazione tra il professorale e il moralistico sul genere di Aristogitone, il personaggio sbeffeggiato da Arbore e compagni nel programma Alto Gradimento.
Con un gruppo di amici pensammo di rompere il muro di pruderie spedendo a Panorama la lettera di una casalinga dilaniata da un dilemma: a lei piaceva essere sculacciata, ma al marito non gli andava di farlo. Non potevamo immaginare che lettere dello stesso tenore arrivavano al giornale da diverse città italiane tanto che Lamberto Sechi ci avrebbe fatto una copertina: La Sculacciata ».
Raccontarlo ti espone al rischio…
«In realtà non fu l’unica bravata. Lavoravo a
L’Ora di Palermo quando nel giornale dirimpettaio, La Sicilia, Candido Cannavò teneva la rubrica Parliamone insieme. Una volta gli mandai la lettera falsa di una madre di famiglia che scopriva la propria figliola a letto con un ragazzo e una ragazza. Ne scaturì un dibattito cittadino che coinvolse tutti, perfino il sindaco e il vescovo. Che io fossi io l’autore Candido l’avrebbe scoperto molti anni dopo, leggendo la mia prefazione alla sua autobiografia».
Non temi la pena del contrappasso?
«Lo racconto per dire del mio rapporto forte con le lettere ai giornali. Cerco nelle lettere quello che ti svelano, anche dietro un’apparente ovvietà. L’esempio più espressivo sul piano letterario è La lettera rubata di Edgar Allan Poe. In fondo il giornalismo è questo: riuscire a far vedere agli altri quello che hanno sotto gli occhi ma non lo vedono».
Con quali criteri le sceglierai?
«Per intelligenza, passione, capacità di spiazzamento. Anche per la forza dello stile.
Vorrei riceverne di insolenti e scanzonate, magari di una riga sola. Su qualsiasi argomento morda il lettore. Ogni tanto cercherò anche io di far delle domande. Mi piacerebbe che tutti quelli che prendono in mano Repubblica — colleghi inclusi — mi affidassero un loro pensiero sui temi caldi dell’attualità. Ne uscirebbe un carteggio più ricco».
Andrai sul personale?
«No, questo non vorrei farlo. Ho amato molto il Montanelli pacificato della Stanza, la rubrica che teneva sul Corriere dopo la stagione militante del Giornale. Era come entrare in camera sua, con il camino acceso, e ascoltarlo mentre ti raccontava il Novecento attraverso la sua vita, i suoi incontri veri o mancati con Churchill e Hitler o il suo rapporto intellettuale con D’Azeglio e Cavour. Ma tutto questo è irripetibile».
Quella di Montanelli era una generazione provvista di una biografia.
«Oggi siamo in tanti, le grandi interviste le abbiamo fatte tutti, e non mi metto a spiegare la Francia perché per tanti anni ho vissuto a Parigi. Non voglio che diventi uno strumento per parlare di me. Provocherei le risate del giovane Francesco Merlo che mi manderebbe una lettera finta facendomi cadere in una trappola».