Il Messaggero, 27 febbraio 2021
1QQAFZ20 QQAN30 I dolori (poetici) del giovane Carmelo Bene
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Raccontiamo in anteprima la raccolta inedita di versi composti dal grande attore negli Anni Cinquanta, in libreria da mercoledì Nei suoi scritti, scrive Filippo Timi nella prefazione, «l’esistenza, l’amore, la vita, la morte e il disincanto» di un ventenne geniale
L’ANTICIPAZIONE
Carmelo Bene, lo sappiamo, era anche un poeta, il poeta dell’impossibile e sta a testimoniarlo l’unico suo libro finora conosciuto, I mal de’ fiori (2000). La sacralità e la sconsacrazione, l’antiumanesimo, il travestimento, l’ambiguità sessuale, i fantasmi ossessivi dell’estetismo, la leggerezza e lo sbigottimento frustrante: c’è tutto Bene in quei versi e tutto come sulla scena di uno «strabordante plurilinguismo», con l’inseguimento di una lingua arcana e preistorica, inventata non per uno sfoggio di abilità linguistica, ma con la miscela di lingue distanti nel tempo (provenzale, latino, italiano arcaico) e nello spazio (spagnolo, portoghese, milanese, toscano, napoletano, romanesco, salentino). È la lingua che si scopre scorporata dal soggetto, straniero nella propria lingua, dove l’io-lirico non può esistere perché gli è negata l’espressione: allora bisogna accettare che «noi non ci apparteniamo», scrive il poeta.
DISTACCO Ma leggiamo alcuni suoi versi scritti quasi cinquant’anni prima: «A scontare /abbandoni nell’inesistente,/il mio pensiero ed io:/vittime sole!/ Dio fa’ che tristezza /non mi abbandoni!». Una poesia che sembra essere un ironico corteggiamento e un primo timido malinconico distacco da quell’io lirico così forte, percussivo, straziato e allusivo che occhieggia, saputo e disincantato, nelle pagine di Ho sognato di vivere!. Sono poesie scritte dal 50 al 58, composte nella casa d’infanzia dei nonni materni in Puglia e poi a Roma dove si era trasferito per studiare legge, che poi abbandonerà per il teatro.
Un prezioso recupero, uno zoom nella preistoria letteraria di un artista che si sta costruendo nelle sue posture e nei suoi incantamenti e ancora crede (anche se che qua e là affiora qualche crepa) che la voce poetica abbia qualcosa di salvifico se consegnata al timbro di parole per loro natura poetiche. Come cuore, tristezza cipressi: «A te, malinconia,/piuma sospinta da ricordi dolci/nega quiete/la memoria beffarda./Una mano febbrile,/sfiora la carta/ per consumar carezze/ e pensieri scontati/invitano parole/a tingersi di nero!».
GLI ASSALTICome un recinto ben protetto nonostante gli assalti continui dove (ben dice Filippo Timi appassionato lettore di questi versi giovanili) «l’esistenza, l’amore, la vita, la morte il disincanto hanno un’omerica grazia di sguardo». «Le radici – la strada ferrata/cielo grigio – la povera storia-/E la città che s’allarga nel fiume di caffè. /Suda coi campanili / si spande di tralicci stinti»: nel Bene ventenne possono affiorare gli incanti e le ossessioni autobiografiche con cui cresce e si radica una certa mitologia della propria identità otrantina.
Quella di «un piccolo paese nel cuore del Salento con una natura potente e prepotente, un mare blu scuro e denso come lo spazio, rocce e scogli ora a picco ora distesi e pietre protese verso il cielo, che dalla primavera all’estate profumavano l’aria di essenze preziose»: così scrive il nipote Stefano De Mattia che ha curato la raccolta inseguendo l’immagine «del giovane Carmelo, con il suo esser essere dolce e romantico, ancora lontano, ma non troppo da una possente consapevolezza».
«Un paese. La strada è un letto freddo/ nel riso nero delle finestre./ Là dove grida l’ultimo fanale, / dubbio eterno nel vento/ tardo apparire / il venditore d’angeli»: è il musiliano spirito della casa, il fatale trascinamento verso un luogo che diventa memoria immaginativa, senso di continuità affidato a un simbolico imprinting di parole, gesti, ritualità, paesaggi, sfiorando, il sottosuolo del passato, privato, comunitario. Una preistoria, dicevo, cioè un fossile che può riaffiorare come nel romanzo Credito italiano V.E.R.D.I del 1967: «Lo senti il le mele, le mele, il prezzemolo, l’aglio, i finocchi, la menta, il basilico, le cipolle, i pomodori, io t’amo io t’amo io t’amo io t’amo».
SCHIAFFOIpertrofico, neobarocco, inesauribile, l’attore e lo scrittore Carmelo Bene porterà sulla scena dell’io il più violento schiaffo alla beatificazione dell’identità. Nei toni squillanti del suo falsetto rauco e strascicato ripeterà una sola, convinta ossessione: l’io che si decostruisce, si dissemina, si contempla con cinica radiosità come Narciso alla fonte, nel feroce smontaggio d’ogni puntello con cui – orgogliosamente e retoricamente – star fermo. Come quel suo Pinocchio iconoclasta che sconvolse il teatro degli anni Sessanta e conserva ancora la forza del riso e del dileggio, la qualità innovativa che hanno i testi quando nascono con una presunzione di scarto dalla norma, di scommessa conoscitiva e deterrente. Ma dietro di lui, c’era quella esile controfigura giovanile, il Carmelo dolce e romantico che forse continuava a ripetergli: «Io cerco un nome/ per poter dire: io esisto./ Un giorno avevo un nome:/ l’ho perso dimenticandomi./ Ora, per ritrovarmi, /io cerco un nome».