ItaliaOggi, 27 febbraio 2021
Perversità di un Paese inefficiente
Qualsiasi società che avesse un debito pari o addirittura superiore al 160% del suo fatturato sarebbe già fallita. Invece, lo Stato italiano continua a ottenere credito e anzi, grazie all’arrivo alla presidenza del Consiglio di Mario Draghi, lo ottiene anche a tassi inferiori all’1%. Le aziende del Paese e i cittadini invece sono costretti a sottostare, per finanziarsi, alle regole imposte dalla vigilanza della Bce, un organo autonomo rispetto al consiglio d’amministrazione della Banca centrale europea; e se il consiglio della stessa ritenesse non accettabili le regole e i provvedimenti imposti dalla Vigilanza (chiamata Meccanismo unico di vigilanza) dovrebbe avviare un conflitto di interessi davanti al Parlamento europeo, come ebbe la cortesia di spiegarmi cinque anni fa proprio Draghi. Ma ciò, rispetto ai problemi dell’Italia, è un problema collaterale anche se molto importante, visto che a differenza degli altri Paesi la liquidità alle aziende e agli individui arrivava per circa il 90% dal sistema bancario, a sua volta messo in croce dalle regole del Meccanismo unico di vigilanza.
Il paradosso e la perversità dell’Italia sono altri e cioè essere allo stesso tempo il Paese con uno dei più straordinari patrimoni immobiliari e artistici del mondo, come eredità dell’Impero Romano, del Rinascimento e delle altre formidabili fasi storiche, ed essere il Paese con il più alto risparmio dei cittadini e delle aziende, ma appunto avere anche un indebitamento stratosferico rispetto agli altri Paesi europei.
Naturalmente, il Covid ha esasperato e drammatizzato questa situazione che ora, pro bono, gli organismi di Bruxelles e Francoforte e gli altri Paesi europei non attaccano più con la veemenza del passato, ma il giudizio è sempre lo stesso: un Paese dissoluto e perverso. Basta leggere, per comprenderlo, cosa scrive regolarmente la Faz, il quotidiano economico-politico più importante di Germania.
Pertanto, il compito che Draghi ha davanti è sì di emergenza, ma è anche, probabilmente come estrema chance, quello di impostare una resurrezione del Paese avendo presente i tre fattori chiave per non far precipitare l’Italia in una crisi irreversibile, appena finirà la tolleranza da Covid degli altri Paesi e dell’Europa. I tre fattori sono: l’enorme debito dello Stato, l’enorme patrimonio pubblico, il grande risparmio degli italiani.
Durante il dibattito al Senato per il voto di fiducia al governo Draghi, il senatore piemontese di Forza Italia, Marco Petrosino, ha evocato con coraggio il problema del debito pubblico italiano e ha ricordato una via per potervi ovviare. Bontà sua ha ricordato un progetto di taglio del debito sostenuto dal sottoscritto e con ben altra autorevolezza dall’attuale presidente della Consob, il professor Paolo Savona. I lettori di questo giornale forse conservano ancora un qualche fastidio, per le volte che lo abbiamo descritto quando, lontana la pandemia, era comunque possibile intervenire per un taglio consistente del debito. Per questo, qui ripeterò l’essenziale per non annoiare oltre i lettori, anche perché poi la ricetta è semplice e la adottano tutte le aziende e gli individui che hanno debiti ma anche un consistente patrimonio. Lo Stato, per una sciagurata legge federalista approvata durante un governo di centrosinistra e attuata obbligatoriamente dal centrodestra, ha girato agli enti locali oltre 400 miliardi di patrimonio, più o meno l’ammontare del debito pubblico di pertinenza degli stessi enti pubblici. In massima parte sono immobili, che hanno trasferito i costi di gestione agli enti pubblici, che in molti casi non sono in grado di valorizzare questi palazzi, caserme e via dicendo. Riapprodando allo Stato questi beni, gli enti locali potrebbero scaricarsi di buona parte dei suoi debiti e lo Stato potrebbe monetizzare in vari modi questo patrimonio non essenziale, tagliando a sua volta una parte consistente del debito pubblico. Non è un’operazione che si compie con lo schiocco delle dita, ma è più che realizzabile, come dimostra l’intervento fatto tre anni fa dal maggiore e più determinato banchiere italiano, a capo dell’unica banca che non trema, Carlo Messina di Intesa Sanpaolo. Messina si dichiarò disposto con la banca a intervenire per un processo di liquidabilità di buona parte di quel patrimonio. In questo momento Draghi ha ben altre gatte da pelare, ma nessuno meglio di lui, che condusse le privatizzazioni, potrà impostare da subito la manovra per il dopo. Che è essenziale, per dare una svolta alla perversione e inefficienza del Paese. Draghi ha la capacità di pensare contemporaneamente al presente e al futuro. Il focus sul debito, non rilevante oggi, diventerà drammatico a emergenza finita, anche se nel frattempo la Ue farà un atto inevitabile e formale, cioè cancellerà o ridimensionerà il Fiscal compact che stabiliva il processo in tempi oggi paradossali per arrivare a portare il debito al 60% del pil. Sono i fatti oggi a rendere appunto paradossale quel progetto, ma resteranno sempre vivi due elementi: la profonda e legittima convinzione dei tedeschi & c., secondo cui essi non devono pagare il debito italiano, e l’enorme differenza che c’è fra il debito italiano e quello degli altri Paesi, che da una parte sbilancia l’Europa e dall’altra crea una sorta di ricatto implicito, che l’Italia deve porvi rimedio.
Proprio giovedì 25, in una lunga intervista condotta a Piazzapulita da Corrado Formigli, l’ex portavoce aggressivo del presidente Giuseppe Conte ha sostenuto con enfasi che l’ex presidente del Consiglio è stato decisivo per far fare alla Ue un passo verso la socializzazione del debito con gli Eurobond, poi tradottosi nel Recovery Plan. È, chiaro, al di là delle capacità di Conte, che a pesare in questo frangente è stata una sorta di maggioranza dell’Italia nel debito pubblico europeo e quindi la preoccupazione degli altri che il terzo Paese della Ue possa finire come la Grecia. Ma una cosa è l’atteggiamento nell’emergenza Covid, un’altra cosa sarà quando l’emergenza sarà finita. A meno che la Bce non svaluti tutti i titoli di Stato acquistati e l’Italia, come altri Paesi, abbia una sopravvenienza attiva. Ma ciò sarebbe possibile se la Ue fosse realmente un’unione e se i tedeschi si ricordassero del regalo che tutti gli altri Paesi della Ue fecero a Berlino, accettando che i marchi della Germania dell’Est fossero pareggiati in valore a quelli della Repubblica federale tedesca, creando immediatamente ricchi 30 milioni di poveri tedeschi dell’Est. Ma i favori, come fu l’annullamento di buona parte del debito di guerra proprio alla Germania, vengono spesso dimenticati.
Il ragionamento dei tedeschi sulla indisponibilità a sostenere il debito italiano ha una sua logica. Essi dicono: lo Stato italiano è iperindebitato per sprechi, scarsa efficienza, evasione..., ma gli italiani sono assai più ricchi mediamente dei tedeschi, come testimonia l’enorme risparmio e il patrimonio che hanno. Quindi, che lo Stato si sappia regolare e persegua equità rispetto agli altri Stati dell’Unione.
Il modo per perseguire equità è uno e uno soltanto: il ritorno a uno sviluppo dell’economia del Paese, che manca dal 2008 e quindi una crescita delle entrate fiscali dello Stato e una progressiva riduzione del debito, al di là di quello che potrà essere, essenziale, con un’operazione straordinaria attraverso la vendita o la cartolarizzazione degli immobili devoluti agli enti locali con la sciagurata legge federale, ottenendo contemporaneamente una riduzione del debito degli enti locali, recuperando essi stessi la possibilità di avere più entrate e di potere più facilmente finanziare opere pubbliche e in generale servizi utili, e quindi produttivi, per i cittadini.
Resta il terzo fattore, cioè come fare in modo che il grande risparmio degli italiani sia destinato allo sviluppo del Paese. Ma prima di approfondire ulteriormente questo tema, già trattato la settimana scorsa in relazione all’operazione Euronext, occorre chiarire un punto importante, cioè la connessione fra il risparmio degli italiani, il debito pubblico e il portafoglio delle banche. Non vi è dubbio che una parte consistente dei risparmi degli italiani provenga dal rendimento che hanno offerto, negli anni 80 e 90, i titoli di Stato italiani. È vero che l’inflazione di quegli anni era elevatissima, ma è anche vero che per far fronte alle crescenti necessità determinate da sprechi, inefficienze, evasioni, lo Stato italiano ha offerto rendimenti altissimi. Rendimenti sui quali era anche nata la deviazione, in alcune banche, di far partecipare alle aste commissionarie esterne, le quali trattenevano i titoli per qualche settimana prima di consegnarli alle banche perché li assegnassero ai risparmiatori, sì da realizzare a colpo sicuro enormi guadagni, considerati i volumi enormi e crescenti delle emissioni. Erano le così dette Pantere rosa di Piazza Affari, come furono definiti nel primo numero di Milano Finanza le combriccole di funzionari degli uffici titoli delle banche e i controllori delle commissionarie. La giustizia ne ha colpiti solo alcuni.
Quindi, una parte della ricchezza degli italiani si è formata per scelleratezza dello Stato, costretto a finanziare fabbisogni crescenti. Tuttavia, ciò appartiene al passato e il dato di fatto è che, soprattutto per virtù e rispetto di alcuni valori, il risparmio degli italiani è enorme e come ormai è noto il 75% di esso finisce in investimenti esteri, finanziando lo sviluppo di quelle aziende e quindi di quegli Stati.
Ben 1.700 miliardi di questo risparmio sono tuttavia sui conti correnti delle banche, che anche con essi sottoscrivono quote importanti di emissioni di titoli di Stato. Contemporaneamente, proprio per l’enormità di risparmio su conto corrente e per la totale inefficienza dei mercati borsistici italiani, le banche restano finanziatrici a breve di quasi il 90% del fabbisogno delle pmi e non solo. In un circolo vizioso, le pmi non avendo capitale versato sufficiente allo sviluppo, vengono a trovarsi in difficoltà, non rientrano dei finanziamenti bancari e le banche entrano in difficoltà, considerata anche le rigidissime norme imposte dal Meccanismo unificato di sorveglianza e dall’Eba, l’autorità bancaria europea, presieduta per vari anni dall’italiano Andrea Enria, ora presidente del Meccanismo.
Ne esce un circolo vizioso e dagli effetti gravissimi.
L’unico sistema per rendere più solido il sistema delle pmi, che sono il pilastro del sistema produttivo italiano, è quello di incrementare il capitale di rischio delle stesse, riducendo così il livello di finanziamento da parte delle banche e quindi i rischi delle banche stesse.
In altre parole ciò si può realizzare soprattutto in due modi non scindibili fra loro: 1) incentivando gli aumenti di capitale con lo strumento fiscale del credito di imposta sia per chi sottoscrive l’aumento sia per la società che lo riceve; 2) creando finalmente un vero mercato dei capitali in Italia, cogliendo l’occasione dell’ingresso in Euronext da parte di Cdp e di Intesa Sanpaolo, che invece potrebbe far emergere alcuni pericoli per Borsa italiana e anche per l’Mts, il grande mercato dei titoli di Stato.
Sul primo punto, cogliendo un forte incoraggiamento da parte del presidente della Consob, Savona, che aveva, all’inizio del Covid, intuito i pericoli per il sistema della sottocapitalizzazione delle pmi, il Parlamento aveva varato un provvedimento assai pasticciato e con una scadenza al 31 dicembre, che di fatto risulta non aver dato nessun effetto. C’è quindi motivo perché il governo Draghi intervenga con un provvedimento efficace, ben sapendo che certi crediti di imposta possono essere recuperati come onere del fisco con le entrate per la crescita dell’attività economica. È veramente fondamentale che la problematica venga affrontata con competenza e rapidità: in giro c’è molta liquidità e i crediti di imposta hanno sempre attrattiva.
Sul tema di Borsa Italiana ed Euronext i contratti sono definiti e il 15 di marzo dovrebbe esserci il closing, ma sarebbe bene che la struttura di Draghi esaminasse bene gli effetti concreti dei vari accordi. Più di uno teme che sia soprattutto un rafforzamento di Euronext, piuttosto che uno sviluppo del mercato italiano, in Italia, per le aziende italiane, soprattutto pmi, ma anche per alcuni gruppi importanti che non sono quotati.