Corriere della Sera, 26 febbraio 2021
Intervista a Bianca Ptizorno
Nel soggiorno della casa milanese dove vive Bianca Pitzorno c’è un curioso affollamento di cose: quadri, fotografie, libri, oggetti che sembrano convivere in un arcipelago ordinato di ricordi. Si sente il gusto di chi ama gli incastri perfetti, senza assemblaggi mal riusciti.
Bizzarro, se pensiamo alla qualità onirica, persino stravagante, dei suoi libri.
«Sì, ma io volevo fare il falegname».
Ma poi è diventata una delle scrittrici più lette del nostro paese.
«D’accordo, ma la mia vocazione era quella. Il fratello di mio nonno faceva l’ostetrico. Il primo libro che lessi, a sei anni, fu un suo testo, parlava delle malformazioni dei neonati. Ebbene lui ad un certo punto cambiò mestiere e aprì una falegnameria. Alla sua morte volle farsi seppellire con gli attrezzi da lavoro».
Uno dei tanti personaggi bizzarri della sua infanzia sassarese.
«E nemmeno il più eccentrico. Vogliamo parlare del mio bisnonno? In famiglia lo chiamavamo “lo scienziato” perché aveva inventato una tecnica per conservare i cervelli a secco, senza formalina. Mio padre era un medico, forse da lui ho ereditato una certa concretezza. Sono nata nel 1942, non sono stati anni facili quelli della mia infanzia. Però li ricordo come anni felici, pieni di fantasia».
E sua madre?
«Una donna intelligente ma purtroppo non aveva potuto studiare. Durante la guerra, per ragioni di necessità alimentare, aveva imparato a riconoscere le erbe commestibili e così uno dei divertimenti di noi bambini sa qual era? Quello di addentrarci nei campi assieme a lei, scovare decine di erbe selvatiche, dar loro un nome e, alla fine, mangiarle».
È vero che un suo avo fu quello che sparò alla brigantessa Michelina Di Cesare nel 1868?
«Sì, era il medico del battaglione. Fu lo stesso che poi decise di esporre al pubblico il corpo della donna, nudo e ferito».
Tutta questa vita mista a leggenda ha poi alimentato la sua scrittura?
«Ma no, io non ho mai pensato, da ragazza, di diventare una scrittrice. Ho cercato di mettermi a dipingere, ma papà si rifiutò di mandarmi all’Accademia, quel “covo di perdizione”. Allora leggevo tutto quello che trovavo, testi serissimi di medicina che però per me diventavano una miniera di cose bizzarre, mostruose. Mi sono laureata con una tesi sull’archeologia antica e il relatore disse che il mio lavoro era ineccepibile sul piano scientifico, ma... assomigliava a un romanzo».
Dunque scrivere per lei è stata un’estensione naturale dell’immaginazione?
«Forse sì. Vede, non era facile in quella Sardegna post bellica confessare di avere delle tendenze artistiche. Eravamo curiosi di tutto ma anche spaventati da tutto. In famiglia si parlava uno strano linguaggio, mutuato da Salgari, ma nessuno pensava alla scrittura come un possibile mestiere, figuriamoci. Per noi era un lessico normale. E anche le vicende dei tipi eccentrici della nostra genealogia, non avevano una qualità letteraria: erano personaggi familiari, persino il bisnonno detto “Catena”, perché matto da legare».
Che cosa faceva?
«Quando arrivò il colera in Sardegna si mise a fare delle conferenze in sassarese per mettere in guardia la gente, povera e costretta ad una vita di stenti. Tra questi consigli c’era anche quello di usare l’acquavite: per disinfettare le mani ma anche da bere. Ma non solo: decise di lasciar circolare liberi tutti gli asini che portavano gli orci con l’acqua da bere. Cose così».
Però senza il retroterra magico della cultura sarda forse non sarebbe diventata Bianca Pitzorno.
«Forse no. Ci sono luoghi in Sardegna deputati alla pura follia. Luoghi e personaggi incredibili, come la giudicessa Eleonora d’Arborea, vissuta nel XIV secolo, alla quale ho dedicato uno dei miei libri più fortunati. La sua versione della Carta de Logu, con norme civili e penali, contiene una delle leggi più egualitarie e a favore della donna che siano mai state scritte. Influenzato dalle idee del nonno di Eleonora, quel codice riconosce non solo i diritti, ma anche il piacere femminile. Se non è rivoluzionario questo!».
La Libreria delle Donne di Milano ha uno scaffale Pitzorno. Ma lei non è mai diventata una femminista nel senso più istituzionale.
«Mai. Però penso di aver fatto molto con i miei libri. Non ho mai voluto alcuna tessera, al massimo ho quella della Biblioteca Sormani. Non fa e non faceva per me. Sono sempre stata una troppo irriverente, mai prona a questa o a quella maestra. Di certo, tutti gli uomini con cui ho avuto a che fare mi hanno incoraggiata nel lavoro».
Le origini sarde
Volevo fare la pittrice
ma papà non mi mandò all’Accademia. Il primo volume che ho letto, da bambina, è stato un testo di ostetricia di mio zio,
sui neonati malformati
E veniamo alla Pitzorno che tutti conoscono. Lei è diventata famosa come «autrice di libri per l’infanzia», ma vogliamo confessare che dietro questa definizione c’è un clamoroso equivoco?
«Sì, è quasi assurdo: non ho mai scritto una fiaba, al massimo dei racconti fantastici ispirati a Voltaire, al suo Candide. Ho scritto un libro sui giochi, assieme a Cino Tortorella e a Guglielmo Zucconi, ho scritto un romanzo di fantasia a sfondo fantascientifico come Extraterrestre alla pari, oppure un libro che rivisita Alessandro Magno. Eppure, nonostante da vent’anni io scriva altro, resto sempre ingabbiata nella definizione di autrice di libri per bambini».
Perché la definisce «gabbia»?
«Perché nonostante questo genere, soprattutto nell’Ottocento, abbia prodotto dei capolavori letterari, resta sempre vincolato ad un intento pedagogico. Conta di più il lettore che il romanzo. Lo trovo assurdo. Però quell’etichetta oggi serve per un fine ancora meno nobile, cioè il mercato. Logiche che mortificano chi scrive cercando una voce originale. Pensi a Roberto Piumini».
Scrittore di valore.
«Assolutamente. Però anche lui è incastrato in questa prigione. Lo trovo ingiusto».
Come arrivò il successo?
«Lavoravo con Raffaele Crovi. Un giorno mi chiese, con tempi molto stretti, un romanzo per ragazzi. Inventai una parodia dei grandi naufraghi e pubblicai Sette Robinson su un’isola matta. Fu un successo. Tenga presente che con il ricavato del libro sui giochi comprai la macchina. Insomma, io con questi libri ho guadagnato, certo, però mi è rimasta l’etichetta».
Una cosa è certa: lei oggi vive di diritti d’autore.
«E ne sono felice. Però, vede, ci sono delle personalità molto complesse che finiscono per essere ridimensionate a causa di questo. Per esempio Cino Tortorella, con il quale ho lavorato a lungo quando ero produttrice in Rai. Lui era un intellettuale raffinatissimo, un esperto di cultura gastronomica, un uomo molto intelligente. E come lo si ricorda oggi? Come il Mago Zurlì. Io sono stata madrina dei suoi amori, dei suoi figli, dei suoi progetti».
Com’era la Rai all’epoca?
«Io entrai dopo aver frequentato un master all’Università Cattolica e dopo aver fatto la scuola del Piccolo Teatro. Mettevo d’accordo Bettetini e Grassi, insomma, entrambi in commissione. Si lavorava moltissimo e io ho seguito programmi come “Chissà chi lo sa” e “L’albero azzurro”».
«L’albero azzurro», programma semi-pedagogico dei primi anni Novanta. Tra gli autori, oltre a lei e a Piumini, anche Bruno Munari. Eccola la linea onirica, fantastica, molto ironica e sfuggente al mercato.
«Produzioni molto rigorose, ma c’è sempre bisogno di un’etichetta, un po’ come in chi scrive libri che possono essere vicini al mondo dell’infanzia. Ma non solo. Per noi autrici sarde c’è sempre stato un grande ostacolo che si chiama Grazia Deledda. Quando cominciavamo a scrivere, subito ci mettevano in guardia: “Siate all’altezza dell’unica donna italiana Premio Nobel per la letteratura” e cose così. Che incubo. Forse è stato anche per questa voglia di uscire dal mondo deleddiano (per carità, straordinario) che ho trovato la mia voce».
Come ha vissuto il periodo in cui è rimasta a lavorare in Rai?
«Le racconto un aneddoto che spiega tante cose. Un giorno mi trovavo nella stanza di Raffaele Crovi, all’epoca un importante responsabile dei programmi. Entrò un attore, molto bello ma molto scemo. Disse, con teatralità: “Ma insomma, che cosa devo fare per ottenere una parte?”. Io ero seduta sulla scrivania di Crovi, a gambe accavallate e, senza scompormi, gli risposi: “Per esempio, potrebbe cominciare con l’essere gentile con me”. Stavo ribaltando gli stereotipi sessisti, Crovi cadde a terra dalle risate, lo scemotto non trovò nulla da rispondere».
È vero che lei ha corretto le bozze de «Il Nome della rosa»?
«Sì, quando Crovi lasciò la Rai divenne direttore editoriale del gruppo Bompiani-Sonzogno-Etas-Fabbri. Mi chiamò come assistente di catalogo. Ho fatto anche quello».
Lei vive da sola, per scelta, una scelta più volte rivendicata. Negli anni che rapporto ha intrecciato con la solitudine?
«Non mi sono mai sposata perché non ho mai incontrato un uomo che in casa smettesse di essere maschio e aiutasse nelle incombenze quotidiane. Prendiamo la cucina: loro non cucinano, al massimo sono “artisti dei fornelli”. Oppure “eroi della lavatrice”, pronti a essere lodati quando lavano un calzino. No, per carità. Nella mia vita ho avuto degli amori, certo, ma nella solitudine scompagnata sto benissimo».