la Repubblica, 25 febbraio 2021
Intervista a un rider
Da quando un giudice ha deciso che Glovo lo dovesse assumere con un contratto a tempo indeterminato, il palermitano Marco Tuttolomondo non ha fatto un giorno di lavoro. «Non per colpa mia, l’azienda mi paga lo stipendio da due mesi ma non mi ha ancora dato una mansione». Quarantanove anni, un passato da autista a Londra, Tuttolomondo è stato il primo rider ad ottenere l’assunzione dopo una sentenza del tribunale di Palermo che ha riconosciuto il rapporto subordinato. «Da quando ho un salario sono più sereno, non ho l’ansia di dover correre per accumulare ordini».
Tuttolomondo, ha letto la notizia dell’inchiesta della procura di Milano sui rider? I magistrati obbligano alcune aziende ad assumere 60mila fattorini.
«Sì e l’indagine non mi stupisce. È tutto alla luce del sole: è chiarissimo che, nella maggior parte dei casi, i rider non hanno un rapporto autonomo con le aziende».
Perché?
«Per tre motivi. Sei geolocalizzato con lo smartphone e l’azienda può vedere i tuoi spostamenti quando lavori. Non puoi scegliere in una rosa di ordini, quali fare e quali no: te ne arriva uno e lo devi eseguire. E poi: noi siamo l’interfaccia delle società in strada, come si fa a dire che siamo autonomi?».
Ma può rifiutare un ordine.
«Teoricamente è vero. Ma se decido di non fare delle consegne l’algoritmo prima o poi mi filtra e mi fa arrivare meno lavoro. E quando sei un rider pagato a cottimo devi accumulare più ordini possibile per guadagnare. Io non prendevo neanche un giorno libero a settimana, nonostante la mia compagna mi dicesse di riposare».
Quando ha iniziato a fare il rider per Glovo?
«Nell’ottobre del 2018. Non è mai stato un lavoretto o un passatempo.
Fatturavo circa 90 euro al giorno e ci pagavo l’affitto, le bollette, la spesa.
Almeno fino a quando non mi hanno disattivato».
Cosa è successo?
«Mi avevano bloccato, per sbaglio, l’accesso per alcuni giorni all’app che smista gli ordini e ho chiesto, senza risultati, il rimborso. Ho protestato e mi hanno bloccato di nuovo, accusandomi di non aver versato i soldi della consegna di una giornata, cosa che ho fatto due giorni dopo per un problema tecnico».
Quando l’hanno riattivata?
«Quasi tre mesi dopo, il 12 giugno. In quei mesi non ho avuto l’introito su cui basavo la mia vita: ero offline, cioè senza lavoro. Ho dovuto lasciare l’appartamento in cui vivevo con la mia compagna. È stata dura».
Ha fatto causa, sostenuto dalla Cgil, e un giudice del lavoro le ha dato ragione, obbligando l’azienda ad assumerla.
«Sì, da due mesi ricevo lo stipendio, 1.229 euro netti, ma non mi hanno dato nessuna mansione».
Non lavora?
«No, ma non per colpa mia. Io sono disposto a fare quello che serve.
Sicuramente non mi manderanno in strada, potrei essere un esempio negativo per gli altri rider. Chissà, forse mi spediscono in ufficio».
Come è la sua vita con un contratto?
«Più serena, non ho l’ansia di dover correre col motorino per fare più consegne possibile. Sono più tranquillo, è ovvio».
Dopo la sua vicenda e l’inchiesta di Milano, è ottimista per il futuro della categoria?
«Sì, assolutamente. Penso che ci siano dei passi in avanti. Ho letto di una famosa azienda di delivery che ha iniziato un piano di assunzioni per i propri rider, fornendo anche mezzi e carburante».
Pensa che la sua battaglia sia utile anche per gli altri rider?
«Penso di essere stato l’apripista, la mia lotta non era soltanto personale ma era anche per tutti gli altri colleghi che dividono la strada con me».