La Stampa, 25 febbraio 2021
L’eternità del blu egizio
Con la parola xsbD gli Egizi indicavano il blu ma anche il più prezioso materiale di quel colore ovvero il lapislazzuli. Nell’antico Egitto non vi era la pratica di produrre il pigmento importando quantità massive di pietre preziose che si trovavano a migliaia di chilometri di distanza, nelle montagne del Badakhshan nel Nord est dell’Afghanistan. Gli Egizi crearono, invece, un colore sintetico ottenuto dalla fusione di elementi diversi quali sabbia, rame, carbonato di calcio e carbonato di sodio (natron). L’uso degli alcali era indispensabile per abbassare la temperatura di fusione a un punto inferiore a 742 gradi. Il prodotto ottenuto ha una grande lucentezza e presenta una struttura composta da cristalli blu rettangolari disposti in diversi strati. Questo processo permetteva di avere un pigmento artificiale, evitando di sostenere spese proibitive.
È interessante cercare di capire quali siano le prime attestazioni di questa tecnica. Nel 2005 lo studioso Hatton ha notato diversi esempi di blu egizio che sono da situare cronologicamente in un’età anteriore alla quarta dinastia, come ad esempio la tomba n. 3121 di Saqqara che si può datare alla fine della prima dinastia (2890 a.C. circa). Interessantissimo è lo studio condotto da Lorelei Corcoran dell’Università di Memphis che è riuscita ad accertare l’attestazione più antica del blu egizio. L’oggetto da lei studiato, un vaso conservato al Museum of Fine Arts di Boston (MFA 98.1011), è il primo esempio dell’utilizzo di un pigmento sintetico della storia dell’uomo.
Come si legge dal rapporto di scavo del 1902 di Quibell e Green, l’oggetto fu ritrovato a Hierakonpolis nel deposito principale nel tempio di Horus, un luogo importantissimo da cui provengono tra gli altri la celeberrima paletta di Narmer e la testa di mazza del sovrano Scorpione. Purtroppo l’impossibilità di disporre di una pianta dettagliata del ritrovamento e la varietà degli oggetti rinvenuti rendono complicata la datazione. Dato che il vaso del Museum of Fine Arts di Boston è inciso con uno scorpione, alcuni studiosi avevano ritenuto che questo oggetto potesse appartenere, come la testa di mazza, al faraone omonimo e fosse quindi databile attorno al 3000 a. C. Studi, raffronti tipologici e l’analisi paleografica hanno invece permesso alla professoressa Corcoran di datare il manufatto alla fase definita Nagada III A-B e quindi a circa il 3300 a.C., anticipando di quasi 500 anni le prime attestazioni di blu egizio in Mesopotamia.
Il professor Quirke dello University College di Londra ha identificato un dei primi esempi dell’uso della parola xsbD come termine lessicale utilizzato per indicare un colore. Nel capitolo 246 dei Testi delle Piramidi leggiamo che il dio falco Horus è descritto con gli occhi alternativamente di xsbD o di dSr, ovvero blu o rossi. È inoltre interessante notare che i geroglifici incisi nella camera sepolcrale del faraone Unas, il primo a far decorare la sua tomba con questi testi religiosi, sono riempiti di pigmento blu, e costituiscono quindi l’attestazione di quanto leggiamo nei testi: «scritto in xsbD (blu)». Si nota una tendenza, già ben attestata in questo periodo, di utilizzare il blu come il colore dei geroglifici soprattutto in testi funerari, aventi la funzione di accompagnare il processo di trasformazione del defunto e la sua ascesa in cielo. Il blu aveva un valore simbolico molto importante e nelle sue varie gradazioni veniva collegato alle proprietà rigeneratrici attribuite al Sole. Nella tomba di Horemheb a Saqqara, nell’inno al Sole, leggiamo che la terra si colora di turchese al tramonto mentre è dorata all’alba.
Il blu egizio fu lungamento usato nella terra del Nilo fino al periodo romano. Lo si può ammirare ancora oggi, nella sua brillantezza, in innumerevoli oggetti come la famosissima testa della regina Nefertiti conservata a Berlino, in papiri, pitture, sarcofagi. Dobbiamo anche considerare che a volte quello che ci sembra essere verde è il risultato di un degrado da un originale blu e questo altera la nostra percezione di come l’artista antico avesse pensato la decorazione cromatica. Attestato in Mesopotamia, l’utilizzo del blu egizio si ritrova nella cultura materiale del Mediterraneo a partire dal Bronzo Medio. Da Plinio e Vitruvio apprendiamo che la tecnica di produzione fu stabilita a Pozzuoli e si diffuse nell’Italia romana. Il pigmento continuò a essere utilizzato fino al VII secolo d.C., anche se vi sono attestazioni più tarde, come è emerso, ad esempio, nelle analisi condotte nella chiesa di San Clemente a Roma.
Sorprendente è il risultato delle ricerche condotte dal professor Sgamellotti sul Trionfo di Galatea di Raffaello a Villa Farnesina: vi fu un impiego esteso del blu egizio. Come mai il grande pittore utilizzò questo colore? L’ipotesi – come ha scritto Salvatore Settis sul Sole 24 Ore della scorsa domenica – è che Raffaello abbia reperito il pigmento nel mercato dei colori romani, che qualche tessera di blu egizio sopravvissuta dall’antico sia stata tritata e rimessa nel mercato; oppure il pittore stesso potrebbe aver recuperato alcuni frammenti di questo colore artificiale visitando le vestigia antiche. Come spesso accade, una scoperta così importante ci induce a porci nuovi quesiti. I risultati archeometrici spingono ora gli storici a chiedersi, come ci ricorda sempre il professor Settis, se Raffaello fosse consapevole che utilizzando il blu egizio stesse recuperando un colore antico che Vitruvio (VII, 11, 1) pensa fosse stato creato ad Alessandria d’Egitto ma che aveva origini ben più antiche.