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 2021  febbraio 25 Giovedì calendario

QQAN10 1QQAN40 Intervista a Luciano Canfora

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«Il Partito comunista italiano? Rinasce nel 1944»: parola del professore Luciano Canfora che nel suo ultimo saggio, La metamorfosi (Laterza, pp. 96, € 12), non smentisce la fama di intellettuale controcorrente. Nato a Bari, classicista e filologo di fama internazionale ma anche studioso del partito di Palmiro Togliatti di cui quest’anno sono stati ricordati i cento anni dalla fondazione, Canfora, in una novantina di pagine al fulmicotone, descrive la metamorfosi, ovvero il radicale cambiamento del Pci e della sinistra dalle lontane origini fino ai nostri giorni.
Professore, il «suo» Pci, quello di cui a lei interessa ripercorrere le vicissitudini, si afferma con la svolta di Salerno, quando Togliatti, in giacca di tweed marrone e maglione girocollo, proveniente dall’Urss, comunica ai militanti stupefatti l’abbandono del progetto rivoluzionario a favore dell’«unità nazionale» tra partiti antifascisti, monarchia e governo Badoglio. Come mai sceglie questa data come momento di rinascita del partito?
«Nel 1944 Togliatti si presenta con la proposta di una formazione politica molto diversa rispetto al Pcd’I che aveva visto la luce vent’anni prima a seguito della scissione dal Psi. Una seconda vita era una necessità nella situazione mondiale in cui si annunciava la sconfitta del fascismo e del nazismo. Era un inizio promettente, la cui linea però non fu perseguita con la stessa audacia da chi venne dopo Togliatti, nemmeno dallo stesso Enrico Berlinguer».
La via italiana al socialismo fu lo slogan che guidò il Migliore in un percorso non più rivoluzionario ma decisamente riformista?
«I partiti cambiano e non rimangono uguali a sé stessi. I liberali della seconda meta dell’Ottocento erano gli esponenti di un movimento rivoluzionario che però poi non fu più tale nel Novecento, e anche il Partito popolare di don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi avvertì la necessità di rinnovare la propria identità e prese il nome di Democrazia cristiana. Togliatti elaborò un piano di democrazia progressiva, un progetto di riforme sociali da realizzare nella cornice del sistema parlamentare pluralistico. Negli anni Cinquanta vi furono la riforma fiscale, la riforma agraria e il piano per il lavoro di Giuseppe Di Vittorio. Grazie alla capacità di visione complessiva di Togliatti, il Pci registrò una crescita costante nel consenso elettorale persino nei momenti più bui: nel 1948, per esempio, quando a perder voti furono i socialisti con cui i comunisti erano alleati nel Fronte democratico popolare, e nelle elezioni successive alla crisi del 1956, verificatasi a seguito dell’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss. L’eredità togliattiana accompagnò il Pci fino alle grandi affermazioni di risonanza mondiale del 1975, del 1976 e del 1984».
Un tesoretto che Berlinguer non seppe capitalizzare in una strategia omogenea?
«Il grande disegno del leader di Sassari fu il compromesso storico proposto dopo il golpe in Cile. Berlinguer poi scelse di parlare di una “terza via” mai ben chiarita, si affidò a suggestioni sessantottesche, ambientaliste e a una vaga simpatia per la predicazione di Pietro Ingrao, a volte confusa. Mancava qualsiasi riferimento alla “socialdemocrazia” che aveva catturato l’ultimo Togliatti: il quale tuonava contro la svolta di Bad Godesberg decisa dai socialisti tedeschi nel 1959 ma si rendeva conto che per il movimento operaio e socialista era necessario imboccare la via di un gradualismo riformista».
La sinistra attuale, il Pd di Nicola Zingaretti e altri partiti che lei nel libro definisce «semi sinistra», come dire sinistra dimezzata, sta ripetendo gli errori che sono stati fatti nel Pci dopo la scomparsa di Togliatti?
«Oggi il Pd ha come ideologia ufficiale l’europeismo, ovvero l’internazionalismo dei benestanti. Altiero Spinelli scrive nel Manifesto di Ventotene che per la nascita dell’Unione Europea, cito alla lettera, “converrà distribuire le ricchezze accumulate nelle mani di pochi privilegiati per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gli strumenti di produzione di cui abbisognano”. Un politico capace, a mio parere, è oggi colui che si proponga di tener testa all’Europa e alla prepotenza del capitale finanziario. Attualmente i partiti sono aggregazioni che vivono per lo più come un alone intorno al capo e che, senza programmi, si orientano fiutando i sentimenti e le pulsioni che attraversano l’opinione pubblica».
Nel suo saggio definisce «volgarità assolute» il Movimento 5 Stelle e la Lega e li addita come «il coronamento della disintegrazione della politica in direzione affaristico-plebiscitaria». Mantiene questa opinione anche adesso che entrambi si ritrovano nel nuovo governo del presidente del Consiglio Mario Draghi?
«La gabbia di acciaio della struttura europea è stata infranta non per volontà dei burocrati Ue ma dal disastro sanitario. Ma questa struttura potrebbe ricomporsi anche tra pochi mesi, quando la pandemia, lo speriamo, allenterà la sua morsa. Salvini, neoeuropeista, è destinato a perdere la scommessa poiché la Lega con questo mutamento di casacca delude la sua base, gli elettori più retrivi, xenofobi e arrabbiati. La sinistra deve rinunciare al suo europeismo: altro non è che la configurazione retorica di una realtà iperliberista la quale a sua volta è la negazione del welfare e della giustizia sociale. Ho scritto La metamorfosi per ripercorrere il cammino che ha condotto gli ultimi eredi della tradizione comunista a diventare alfieri di valori antitetici rispetto a quelli su cui era sorto il Pci. Ma l’ho concepita anche per esortare a guardare a un passato che si può come modello ideale recuperare». —