La Stampa, 25 febbraio 2021
Intervista a Samuele Bersani
Samuele Bersani è appena tornato da Sanremo, dove ha provato Giudizi universali, che canterà con Willie Peyote nella serata delle cover. All’inizio di ottobre ha compiuto 50 anni e pubblicato il nono album, Cinema Samuele.
Non vorrei fare la fine del personaggio della sua canzone «L’intervista», licenziato per aver trattato male l’artista.
«Ma io quel giornalista lo vedo come un’anima buona che si trova disorientato oggi, avendo spesso a che fare con soggetti che tendono a considerarsi fenomeni e vengono recepiti così, che sono arroganti, supponenti, anche nei video, nelle canzoni. In questi anni ho avuto tempo per vederne, di cantanti così. Sto dalla parte sua, del giornalista».
Lei com’era agli esordi, a 21 anni?
«Forse meno timido di adesso. Le interviste ti costringono a parlare di te, ma io sono sempre stato più curioso degli altri che di me».
Ha dovuto parlare di sé per spiegare i sette anni tra questo album e il precedente, uscito nel 2013. Ha detto che ha scritto poche canzoni e troppi sms per tentare inutilmente di salvare un amore.
«Ero inceppato in un loop da cui facevo fatica a uscire. C’è voluto tempo, e poi il tempo di lavorazione è stato lunghissimo. Vengo da un mondo in cui non c’era niente di strano ad aspettare sei o sette anni un disco. Se penso a De André... E comunque ora sono felice, la musica serve a conoscersi, soprattutto con i testi, è come andare dall’analista».
Cosa cercava?
«Lampi di bellezza nuovi. Credo di essere riuscito a raccontare meglio che in passato il momento, mio e degli altri. Poi ho cercato di scrivere melodie diverse, ho lavorato molto sulle armonie, sulle sonorità. Non lo faccio per i follower, ma perché così respiro meglio».
Dieci canzoni, 39 minuti: è un album come quelli di un tempo.
«Sì, è rotondo, ha un punto di partenza e uno di arrivo. Penso sempre a quando a Cattolica ero davanti al negozio di Angelo ad aspettare che aprisse per comprare un disco, poi tornavo in camera, spegnevo la luce e vedevo le canzoni vivere dentro la mia stanza. Faccio io una domanda a lei: che cosa la fa godere oggi della musica italiana?».
Oggi stiamo meglio che cinque o sei anni fa. Per esempio in questi giorno sto ascoltando l’album di Venerus, che le consiglio. Ci sono cose buone, Calcutta…
«Sì, Calcutta piace anche a me, certo. Ciò che non mi piace è la tendenza mondiale a una sola bandiera, quella dell’autotune. La trap proprio non mi appartiene. Però apprezzo Niccolò Fabi, sempre autentico, in lui non c’è mai puzza di bruciato, o Diodato, Brunori, i Coma_Cose, Iosonouncane».
Gli anni più bui del nostro pop sono stati quelli dell’egemonia dei talent.
«Una decina d’anni fa ero al bar con Rudy Zerbi, all’epoca mio discografico. Aveva fatto tre puntate di Amici, io ero vent’anni che scrivevo canzoni, è arrivata una ragazzina e ha chiesto l’autografo a lui, non a me. È stata la resa dei conti, per me».
I talent show sono televisione, non musica.
«Diciamo che la gavetta per me non prevede la telecamera con la luce rossa accesa. Prevede fatica. Però ho duettato con tanti, e devo dire che Marco Mengoni è bravissimo, è uno che sa il fatto suo».
Il suo talent show è stato suonare «Il mostro» a Lucio Dalla a San Benedetto del Tronto.
«Lucio mi ha detto: “Bravo, bravissimo, l’hai scritta tu?” E poi: rimani qui, dai una mano. Ero lì a vendere magliette delle caramelle Charms quando sento che parla di me: “Oggi ho incontrato un ragazzo, mi ha fatto sentire una canzone, è là, dai vieni sul palco, non so nemmeno come si chiama…”. La sera stessa del nostro primo incontro».
Lei sapeva che «Il mostro» aveva qualcosa di speciale?
«Sì, è raro emozionarsi per qualcosa che stai facendo tu. Non capita spesso, ma capita. Per esempio in questo ultimo disco mi è capitato per Pixel, Le Abbagnale, che mi hanno ispirato due ragazze che si tenevano per mano viste a Parma, di notte».
Le mancano i concerti?
«Tanto. Ma questa estate li faremo, recupereremo con festival a cui parteciperemo in tanti». —