Avvenire, 25 febbraio 2021
Gli ottant’anni di Pierluigi Cera
Ottant’anni, di questi tempi, sono una porta che si apre. «Festeggerò anche la possibilità di prenotare il vaccino; da lunedì potranno farlo anche i nati nel 1941 e non mancherò». Parola di Pierluigi Cera, che ottant’anni li compie oggi. «Pur senza grandi pretese, è stato un anno duro. Non tanto la paura, quanto piuttosto il dover restare sempre sull’attenti. Ora l’anagrafe me lo permette, avanti col vaccino», racconta il capitano del Cagliari dello storico scudetto del ’70, dalla sua Cesena. Telefono fisso, nessuna concessione al portatile. Scruta l’orizzonte fuori da casa Cera e vede un sole primaverile, in un tempo in cui il cielo sarà pure azzurro ma la lente regionale è arancione.
Intanto nella casa di Romagna c’è un compleanno da celebrare.
Pensavo di essere di passaggio qui a Cesena. Era il 1973, avevo 32 anni e avevo comprato casa a Cagliari: resto una stagione, chiudo la carriera e torno a vivere in Sardegna, pensavo. Non me ne sono ancora andato.
Cesena, la provinciale che finì in Europa, stagione, 1976’77. Un altro calcio.
Arrivai con la squadra neopromossa, non ebbi infortuni, ci salvammo. Così l’anno dopo e quello successivo, poi la Uefa. Mi ero trovato benissimo. Tanto valeva rimanere.
Prima, a Cagliari, mediano di piede educato diventato libero d’impostazione per sostituire Tomasini. Ora il libero non c’è più ma tutti vogliono “costruire dal basso”.
E prendono gol per uscire dall’area. Vedo portieri e difensori costretti a forza a cominciare l’azione da dietro, il tutto per giocare due-tre palloni in più e poi lanciare lungo linea dall’esterno. Allora tanto vale il rinvio no...
Lei giocava con Niccolai a Cagliari, con Rosato in Nazionale. Libero e stopper, patti chiari.
Adesso fare il difensore è più difficile: ci sono attaccanti più mobili e capaci con i piedi, ma la marcatura non si insegna più e spesso e volentieri, quando l’attaccante parte, scappa. Un tempo i difensori utilizzavano molto il fisico, ora si trovano al cospetto di avversari più smaliziati: quando le aree sono intasate, partono le gomitate.
Dicono che lei era «allenatore in campo».
Davo suggerimenti ai compagni, questo sì. Il “Filosofo” Scopigno a Cagliari li invitava ad ascoltarmi in certe situazioni: «Attento se ti chiama Piero», diceva. Quando venne squalificato, la stampa ci marciò, scrivendo che allenavo io. Ma il vice era Ugo Conti, allenava lui.
Già, Scopigno. Che tipo era?
Uno che si fidava e non rompeva. Non drammatizzava, aveva la battuta pronta anche nelle difficoltà. Sembrava che le tensioni del calcio non gli appartenessero.
Gli volevamo tutti bene.
Da libero arrivò a giocarsi un Mondiale in finale. Che ricordi ha?
Soddisfazione perché era l’aspirazione massima per un calciatore. Poi però rimane una certa delusione per averlo perso il Mondiale, altro che Italia-Germania 4-3.
Se uno scorre la sua carriera, trova anche gli Stati Uniti, tecnicamente in un campionato americano riconosciuto dalla Fifa nel 1967. Cos’erano di preciso i Chicago Mustangs?
Non l’ho mai capito, eppure resta negli almanacchi. Solo una cosa sapevo: al Cagliari arrivavano soldi da quel torneo e noi in estate volammo negli Stati Uniti, ma erano partite che non significavano niente. Scendevamo in campo senza sapere se sarebbero finite.
In che senso?
Ad un certo punto, in tutte le gare entravano in campo gli spettatori e la gara finiva nel caos. Avrò giocato una mezza dozzina di partite, nessuna mi sembra sia arrivata al 90’. Io poi tornai anche a casa prima degli altri: dovevo sposarmi.
Tre squadre, tre fasce da capitano:Verona, Cagliari, Cesena... come se lo spiega?
Credo per il buon rapporto con i compagni e per il carisma: parlavo poco, avevo iniziato a fare il capitano giovanissimo con compagni più grandi, a un certo punto sembrava quasi normale quella fascia al braccio.
Cos’è stato il calcio per lei?
Un divertimento. A conti fatti è diventato un lavoro ma diciamo che mi sono adattato a considerarlo tale. Quando sento i giocatori parlare di sacrifici mi scappa da ridere... Certo, magari fai qualche rinuncia, ma i sacrifici lasciamoli agli operai che lavorano a catena...
Un retaggio di famiglia.
Mio padre credo non abbia mai visto una partita in vita sua, neppure le mie. Lui lavorava, io mi facevo notare ma contava studiare: solo una volta finito di studiare ragioneria avrei potuto fare ciò che volevo.
È stato dirigente sino al 2001, ma da vent’anni ha chiuso con il calcio...
Ho esordito da professionista nel 1958, mi ero stufato di essere sempre in tensione. Se vinci va tutto bene, se perdi è un dramma, e così per anni. Meglio chiudere la saracinesca e continuare, guardando avanti, senza rimpianti.