la Repubblica, 23 febbraio 2021
Intervista a Matteo Pessina (che parla latino e studia economia)
Matteo Pessina, 23 anni, trequartista dell’Atalanta impegnata domani sera nell’andata degli ottavi di Champions col Real Madrid e studente universitario di economia, è vero che lei ha il pallino dei proverbi in latino?
«Sì, mi piacciono. In latino, al liceo, andavo bene».
“Gutta cavat lapidem”, il suo preferito, o “virtus unita fortior”: che cosa descrive meglio l’Atalanta?
«Tutti e due. Il club è partito dal settore giovanile, poi ha fatto il centro sportivo e lo stadio. È una società solida, lungimirante, organizzata. E noi siamo un gruppo unito e con un unico pensiero: farci entrare in testa le idee di Gasperini.
Corriamo l’uno per l’altro».
Nelle vittorie cruciali con Liverpool, Ajax, Milan e Napoli in Coppa Italia hanno ruotato Gomez, Ilicic, Zapata e Muriel. Lei no.
«Se non ci fossi stato io, magari avremmo vinto lo stesso. Certo, sono contento di avere giocato partite che sognavo da piccolo. Dicevo: un giorno le giocherò io».
Sognava anche quella col Real Madrid?
«Forse era il sogno più grande. Io, poi, mi ispiro a Toni Kroos».
Il Real è in emergenza e senza Ramos e Benzema.
«Lasciamo perdere le assenze del Real. L’essenziale è affrontarlo come abbiamo sempre fatto con tutti, senza snaturare il nostro gioco».
Che cos’ha di speciale?
«Forma fisica e organizzazione tattica. Lavori di forza e atletici che nessun altro fa in A e pressing altissimo, sull’uomo. Così gli avversari vanno in difficoltà, soprattutto nel secondo tempo. E poi fase difensiva: la nostra parte dal primo attaccante e arriva fino al portiere».
Gasperini e Juric, suo ex allenatore al Verona, sono davvero gli innovatori del calcio italiano?
Sì. Il loro gioco molto europeo ha cambiato la direzione del calcio.
Quando parte all’attacco un nostro difensore, gli avversari vanno in affanno, non ci sono abituati».
Pensa che l’Atalanta abbia rinunciato a Gomez anche perché ha trovato lei?
«Ma no, quello che ho fatto io non è nemmeno paragonabile a quello che ha fatto qui il Papu».
Lei dice di se stesso: so vedere gli spazi in campo anche grazie alla mente matematica e al liceo scientifico.
«Mi piace pensare che lo studio mi sia servito a tenere la mente allenata sul campo. E a mantenere il distacco necessario. Se mi considero ancora uno studente che gioca a calcio, tengo i piedi per terra. L’ho detto ai ragazzi del mio vecchio liceo: se uno punta tutto sul pallone, rischia di ritrovarsi allo sbando».
Ma Paolo Maldini disse che la scuola italiana penalizza gli sportivi professionisti.
«Sono d’accordo. Nelle scuole pubbliche, in genere le più importanti, spesso si pensa che uno debba studiare e basta».
La pandemia moltiplica gli abbandoni scolastici: il suo amico Locatelli ha lanciato un appello per tenere duro, anche con la Dad.
«Manuel ha ragione. Ne usciremo, vedo una luce. Serve l’aiuto di genitori e professori: i ragazzi non devono mollare. Vale anche per gli allenamenti degli sport non professionistici, bloccati».
Da fratello di una danzatrice classica e frequentatore della Scala,
arte e bellezza sono salvifiche?
«Mio papà commercialista e mia mamma architetto mi hanno sempre insegnato ad apprezzare musei, balletti, opere. Cerco la bellezza in tutto. All’università ho scelto economia per un futuro dirigenziale, che sia all’interno di un club o fuori.
Ma avrei fatto volentieri architettura, se per me non fossero state impossibili le lezioni in presenza».
Ha un artista preferito?
«Mi piace scovare anche quelli meno famosi.
In camera ho appeso la riproduzione di un quadro di Van Gogh, visto ad Amsterdam: “Ramo di mandorlo in fiore”».
Il calcio è arte?
«Arte e poesia, diverte e stupisce. È l’emozione reciproca tra noi e i tifosi. Pazzesca».
Maradona?
«Penso che non fosse solo il giocatore, purtroppo. Il nostro artista è Ilicic: coi piedi disegna capolavori».
Il talento si può imparare?
«L’eleganza e i movimenti sono innati. Però
anche sapere lavorare è un grande talento: penso sia il mio».
Lei ha vissuto anche il brutto del calcio: il fallimento del Monza.
«Anche quello del Como. E tra Lecce e Catania ho giocato 5 partite. Ma lì ho capito che volevo fare quello che faccio e che la strada per realizzare i propri sogni è dura: quando arrivi, è ancora più bello».
Il Milan non ha puntato su di lei: la inserì nell’operazione Conti con l’Atalanta, pur avendo conservato il 50% sull’eventuale futura rivendita.
«Ero giovane e senza esperienza, era giusto che la facessi altrove. Col Milan ho cercato di fare i passi più giusti in quel momento: non è andata nel migliore dei modi, ma nel calcio succede. Oggi sono contento di essere all’Atalanta e di tutto il mio percorso. Credo anche di avere lasciato buone tracce ovunque io sia stato».
Adesso è tra i simboli della nuova tendenza tecnica: il centrocampista universale.
«Ci adattiamo al calcio nuovo, ci muoviamo più negli spazi, vediamo di più la porta».
La generazione del terzo posto dell’Under 20 al Mondiale, con Barella.
«Esperienza fantastica, da ricordare per tutta la vita».
Era il 2017, il punto più basso della Nazionale col Mondiale mancato, prima della rinascita con Mancini.
«Non mi va di giudicare chi c’era. Forse ora c’è più consapevolezza di essere capaci di risultati importanti».
Il Psg di Verratti, Kean e Florenzi ha strapazzato il Barcellona: si può vincere l’Europeo?
Possiamo giocarcela con tutti: l’abbiamo dimostrato sia coi club sia in Nazionale».
Da ultimo arrivato conta di essere all’Europeo?
«Io sto dando tutto. Siamo in tanti, ma così è ancora più stimolante».
Facta, non verba.
«Lo dico da sempre. È il modo migliore per dimostrare le cose, in questo mondo dove tanti parlano troppo».