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 2021  febbraio 23 Martedì calendario

Di Battista prepara il suo movimento

Prima certezza: Alessandro Di Battista, entro la prossima estate, fonderà un partito, o un movimento (avete presente Luigi Di Maio, sempre tutto perfettino, positivo, sorridente? L’altro giorno aveva una maschera di fastidio e apprensione, e diceva a un suo amico che tanto amico non è, perché poi spiffera tutto: «Guagliò, questo rischia di portarci via almeno il 5%»).
Seconda certezza: nel frattempo Dibba ha cominciato la sua personale campagna elettorale già molto dura e pura, molto social, piacionesca da morire.
Su Instagram.
Santo cielo, Dibba: dagli tregua a quel ciuffo.
Per dirci in diretta che «non sono io a non pensarla più come il M5S, ma è il M5S a non pensarla come me» – notare la modestia – sta lì barbuto, stropicciato, con la camicia jeans e le maniche arrotolate: e per 42 minuti si tormenta i capelli, alternando smorfie, bravissimo a giocare con i toni della voce, severo/ ironico/ sprezzante, mai parlando in generale ma sempre rivolto ai suoi 271 mila follower, 87.111 mila dei quali collegati, e in adorazione (considerate che la sua pagina Facebook ha 1 milione e mezzo di «mi piace»: numeri da Totti, Ligabue, papa Francesco).
Bisogna dare atto a Dibba di essere sempre rimasto nel ruolo che si prese fin dall’inizio della stagione grillina: il gruppettaro capace di rivolgersi alla pancia più movimentista del movimento. Sfrontato («C’è Gianni Letta dietro la congiura di Draghi»), a volte avventato (Il Foglio lo definì «mitomane a 5 Stelle», il New York Times lo inserì nell’elenco dei politici «ballisti»), ossessivamente sicuro di sé: pensò di aver fatto una mandrakata a non candidarsi nel 2018, l’idea era quella di restare fermo un giro per poi tornare e prendersi tutto; non immaginava che i suoi si sarebbero incollati con il Vinavil alle poltrone (e agli stipendi), restando al governo prima con la Lega, poi con il Pd, e adesso eccoli lì dentro anche a questo esecutivo di salvezza nazionale.
Dibba ci ha messo un po’ a capire.
Lo psicodramma del voto sulla piattaforma Rousseau, in qualche modo, lo ha aiutato.
Alle 15.29 arriva un lancio dell’agenzia Ansa: «++M5S: Di Battista rinuncia a iscrizione al Movimento».
È fuori, libero. Così va a farsi fotografare allo Stadio dei Marmi, con lo zainetto e i libri, perché se ti chiamano il «Che Guevara di Roma Nord», i libri devono esserci: in posa allora sui gradoni con i due figli e la moglie Sahra Lahouasnia, donna di eccezionale pazienza – in questi ultimi tre anni, lo ha sostenuto e seguito ovunque.
Quando Dibba decide di mettere il naso nella piccola scalcagnata azienda di famiglia specializzata nel ramo sanitari (conti in rosso, troppo rischioso, e in più Vittorio, il padre, un pochino ingombrante: «Preferirei essere chiamato il camerata Vittorio»).
Quando si convince d’essere uno scrittore di reportage: da piazza dei Giuochi Delfici di Roma scende fino in Guatemala, passando per il Chiapas, Messico, facendo però alla fine innervosire alcuni ricercatori italiani che lavorano laggiù; così un giorno su Twitter e sul web comincia a girare un hashtag – «DiBattistaFueraYa» – con cui i compagni ricercatori avvertono le comunità zapatiste che «il tipo impegnato a fare il terzomondista è, in realtà, uno dei leader di un partito che, in Italia, va a braccetto con i fascisti» (il racconto del suo viaggio in America Centrale per Sky Atlantic verrà poi giudicato da Aldo Grasso il peggior programma del 2019).
Dibba prova anche a fare il falegname (ma niente: troppo faticoso). Poi, una meraviglia, la scorsa estate: a Ortona, spiaggia privata dell’hotel Katia, ombrelloni in fila per nove e sabbia bollente, con lui che all’improvviso spunta fuori tutto vestito da barman, completo di bandana, e sul serio faceva il barman, Dibba barman, e stava lì al chiosco che preparava Negroni – 1/3 di gin, 1/3 di vermouth rosso, 1/3 di Campari – e però gli scappavano regolarmente due foglioline di menta. «Ma no, Ale! Quante volte devo ripeterti che la menta devi metterla solo nel mojito?».
Simpatico, visionario, sempre in possesso di una spensierata certezza su tutto: «Chi non balla è cornuto!», urla nei villaggi turistici, dove da ragazzo lavora come animatore, noto con un nomignolo efferato: «Cuore di panna»; da deputato promette ai pugliesi di chiudere il Tap in due settimane (poi, a capo chino: «Scusate, non mi ero reso ben conto»); suggerisce di trattare con l’Isis; annuncia che in Grecia molti cittadini disperati si iniettano il virus dell’Aids. Ma il suo capolavoro resta forse il viaggio con Di Maio in Francia, al termine del quale convince Luigino ad abbracciare i gilet gialli che hanno appena incendiato Parigi (immaginate poi Macron quando seppe che quello con la cravatta era diventato il nostro ministro degli Esteri).
Dibba ha solo 42 anni.
E, oggettivamente, può ancora dare molto.