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 2021  febbraio 23 Martedì calendario

Leggere Lolita su Raiuno

Il più importante romanzo americano del Novecento lo scrisse un russo, e il suo incipit faceva così: «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta». (La traduzione è quella di Giulia Arborio Mella per Adelphi: io di certo non mi azzardo a rendere i virtuosismi lessicali di Vladimir Nabokov).
Il più ampio (per ora) successo televisivo italiano del 2021 s’intitola “Le indagini di Lolita Lobosco”, e il suo incipit è un paio di mutande rosse che volano. Manca ancora qualche giorno a capodanno, e subito dopo sentiamo una sveglia squillare per un paio di secondi, una donna che dorme sola la spegne, e il display segna le 7 e un minuto (che originale, mette la sveglia alle 7 e un minuto).
Di fianco al letto ci sono delle scarpe col tacco alto leopardate, così capiamo che la portatrice di mutande rosse è una panterona; poi si alza ed è in sottoveste di seta, così capiamo ancora di più che è una panterona ma soprattutto che l’hanno scritta individui con gameti maschili, unici a pensare che una donna sola dorma in sottoveste di seta rischiando di strapparne le sottili spalline rigirandosi, con quel che costano; poi ritira la biancheria stesa, ed eccole, le mutande rosse che volano; poi esce di casa e la vicina impicciona le dice che se non le funziona la serratura è perché senza un uomo, come si fa: così capiamo che la panterona è zitella (single, si dice in panteronese), e anche cosa succede quando la puntata di “Sex and the City” in cui Charlotte capiva che non le serviva un fidanzato ma un portinaio diventa roba da Rai 1; poi la vicina le restituisce le mutande rosse chiedendole se si siano ristrette con la centrifuga, così capiamo che in Puglia (che è tale l’abbiamo capito dalle vocali strette della vicina) i giornali non hanno le pubblicità di Yamamay e simili, ma quelle dei mutandoni della nonna.
Tutta questa descrizione, sia chiaro, è un’ammissione di sconfitta. Di sconfitta mia, che se mi avessero portato un’idea in cui Luisa Ranieri parla come Lino Banfi, il fruttivendolo sotto casa sua è accidentalmente un vecchio amico del padre così possiamo sentirlo rievocare tutta la loro antica consuetudine ed essere nei primi due minuti informati del retroterra della protagonista, e la vicequestore, per significarci assertività femminile, molla il torsolo d’una mela in mano a un poliziotto, e ordina senza alcuna formula di cortesia un caffè a un altro – se mi avessero proposto una roba così, io avrei detto orsù, il Novecento è finito. E invece sette milioni e mezzo di spettatori sono stati lì a provare al mio sciocco scetticismo che il Novecento è finito un po’ ovunque tranne che alla tv italiana.
L’altro giorno il direttore di Rai 1 è comparso davanti alla commissione di vigilanza per giustificare i miseri ascolti d’un nuovo programma. Ha detto, credo senza mettersi a ridere, che il programma «non va letto solo come un flop, ma anche come un tentativo di accompagnare al sabato una quota di desiderio di poetica da parte del pubblico».
Non ha detto, pover’uomo, ma cosa volete che mandi in onda, in un paese in cui Lunetta Savino insegue Luisa Ranieri, la figlia vicequestore che se ne va dalla cena della vigilia con la scusa d’un’indagine in corso, urlando «almeno pigliati i panzerotti», e sette milioni e mezzo di ebeti non cambiano canale.
Ma cosa volete che mandi in onda, se la vicequestore va a interrogare la portinaia la mattina di Natale e quella è lì che ligia spazza l’atrio, e sette milioni e mezzo di italiani non si chiedono perché solo la portineria del loro palazzo a Natale sia chiusa.
Ma cosa volete che mandi in onda, se la tv che dirigo esiste in un paese d’analfabeti che si fanno l’account di Facebook col cognome prima del nome, meno male che Rai Fiction c’è, e mi passa questi prodottini in cui il poliziotto manda al vicequestore un WhatsApp firmato, e la firma è cognome nome, e il paese ci si rispecchia e se li guarda tutti.
Ieri la maggior parte degli articoli su Lolita Lobosco riportava i tweet indignati dei baresi identitari, quelli pronti a dire che noi non parliamo così, noi non pratichiamo il feticismo dei panzerotti, noi siamo gente contemporanea. Mica come quei sette milioni e mezzo per cui dire «uomo» con la «o» chiusa va benissimo come resa dialettale.
A me, per dire, sembra un mezzo miracolo, in un paese in cui c’è sempre una Apulia Film Commission e una regione folkloristica in cui girare, ma pur di non far faticare un attore a imparare un accento diverso dal proprio si escogitano sempre origini romane del personaggio.
Lolita è appena tornata dal nord, eppure ha le vocali di Lino Banfi. Di meglio avrebbe potuto fare solo Favino, l’unico attore italiano a fare gli accenti in maniera verosimile, e anche un’interessante scelta per un personaggio chiamato Lolita (ma forse un uomo che fa una donna ormai è vietato, è appropriazione culturale, e anche Billy Wilder non si sente tanto bene).
«Chissà per quanti uomini sei stata la loro prima Lolita», sospira un corteggiatore della vicequestore. Sono queste le battute che vogliono sentire sette milioni e mezzo di italiani, un popolo di risate a denti stretti della Settimana Enigmistica.
Nella mia bolla – specializzata in insuccessi e in programmi con più lodi dei recensori che migliaia di spettatori – Lolita Lobosco non l’ha visto nessuno. Altrimenti avrebbero notato che la scena della macchina della verità era un omaggio a una famosissima scena di “The Wire”, la serie televisiva più lodata e meno vista di tutti i tempi, praticamente il Lundini dei polizieschi americani.
Per il grande pubblico, quello che se gli dici «The Wire» ti chiede se sia un nuovo social, una tv generalista italiana fa benissimo ad approntare una produzione semplice e fruttuosa.
È più sensato che detestarlo, il grande pubblico, e invocare per esso la fine della madre di Humbert Humbert, in quel rigo con cui Nabokov ti faceva venir voglia d’un’indagine d’ispettore televisivo: «La mia fotogenicissima madre morì in un bizzarro incidente (picnic, fulmine)».