Il Messaggero, 23 febbraio 2021
Intervista a Edith Bruck
Edith Bruck si è salvata diverse volte. Quando uscì da Auschwitz, a 13 anni, era talmente denutrita da non pesare che 25 chilogrammi, un mucchietto di ossa, quasi incapace di immaginare di nuovo lo scorrere della vita in un mondo che si era polverizzato, senza mamma, papà e fratelli. «Smetti di piangere: la vuoi vedere tua mamma?» le fu chiesto nel lager C, numero 11, dalla kapò polacca che aveva il controllo della baracca. «Lo vedi quel fumo e lo senti questo odore? È tua madre che sta bruciando». Il suo piccolo paese in Ungheria Tiszabercel era praticamente stato spazzato via e l’aspettava un peregrinare senza sosta, prima in Israele e poi in Italia, dove si sarebbe sposata con Nelo Risi.
Edith non avrebbe mai immaginato che un’altra salvezza le sarebbe arrivata dalla lingua italiana, strumento con il quale ha potuto raccontare e prendere le distanze emotive dal trauma subito. Scrittrice, poetessa, traduttrice, Edith ha usato l’italiano come uno scudo. Nell’ultimo suo libro, pubblicato dalla Nave di Teseo, Il Pane Perduto, che gli vale la candidatura allo Strega e al Campiello, riprende il suo narrare denso, ogni volta più sottile e acuminato, scendendo negli abissi dell’anima.
Quanto le è stata di aiuto la scrittura?
«Scrivere mi è necessario. Lo faccio ancora a mano. Tutti i miei libri li ho scritti a mano. L’ultimo ho fatto più fatica a scriverlo per via della maculopatia ma credo che potrei scrivere anche da cieca».
Perché ha rifiutato la sua lingua madre, l’ungherese?
«In italiano mi sento più libera. In qualche modo mi nascondo. Il fatto è che la mia lingua rievoca in me ricordi dolorosi. Se scrivo in ungherese, per esempio, la parola pane, automaticamente rivedo l’immagine di mia mamma in cucina, vicino al forno, con le gambe gonfie, il viso rosso e stanco. Vedo la sua figura appoggiata al forno, e quell’immagine mi è insopportabile. Se scrivo, invece, pane in italiano, non mi suscita commozione se non la sua fragranza e il suo odore. L’ungherese tocca la profondità delle emozioni. Ancora oggi fatico a reggere l’urto di alcune parole in ungherese. Per esempio certe offese che sentivo quando andavo a scuola. Ero una bambina ebrea e venivo insultata con epiteti che ancora oggi mi addolorerebbero. I suoni emessi sono coltelli. Se scrivo in italiano una parolaccia non ne sento la profondità. In ungherese non potrei nemmeno pronunciarla. Il dolore si riapre e sgorga a fiotti. L’italiano per me è stata una lingua salvifica, da una parte mi ha consentito di sopravvivere, dall’altra di dare testimonianza».
Sabato scorso, dopo il tramonto, ha ricevuto la visita di Papa Francesco a casa sua. È vero che gli ha dedicato una poesia?
«In realtà è la dedica al libro: All’amato Papa Francesco dono del cielo, regalo per il mio sabato, tanto ricco quanto era povero da bambina, e amaro da adulta. Ma oggi più dolce con un ricordo più vivo, finché vivo di un essere grande, umile, semplice, indimenticabile. Chiederò ad Adonai di tenerla in vita a lungo, forse per una volta mi ascolta».
In molti si chiedono dove fosse Dio a Dachau o a Birkenau. Che idea si è fatta di quel silenzio?
«Affrontare l’aspetto religioso mi mette in imbarazzo. Penso che la religione sia qualcosa di molto intimo. Cosa è per me la religione lo spiego subito con due esempi piccolissimi ma significativi. Ho avuto una suocera che metteva su un foglio di carta dello zucchero per attirare così le formiche che erano in casa che poi depositava nel giardino. Mio marito, invece, un giorno trovò un topo nel bagno e gli costruì una specie di scaletta per farlo uscire all’esterno. Ecco per me questa è la religione. È il rispetto per ogni vita, per tutto quello che esiste nella natura e respira. Anche il salvare la vita di una formica. Per me la religione non significa battersi il petto, ma comportarsi nella maniera più giusta e civile, rispettosa del prossimo di qualsiasi colore sia».
Avete parlato di Dio lei e il Papa?
«È venuto da me che sono ebrea, non importa se credente o non credente. Io mi sento ebrea, come diceva anche Primo Levi. Ci siamo soffermati a riflettere su quello che sta accadendo».
Da sopravvissuta è preoccupata per come la memoria collettiva si stia indebolendo in Europa?
«I giovani non hanno colpa se non sanno cosa è accaduto nel cuore dell’Europa. Nelle scuole si insegna poco la storia recente. Cosa possono sapere se si inseriscono solo 10 righe sulla Seconda Guerra Mondiale? Man mano che passa il tempo diventa sempre più difficile credere, è una mostruosità inaccettabile. E già si vede chiaramente la tendenza a negare persino quello che fu fatto dai nonni: ci sono paesi che negano di essere stati alleati dei tedeschi».
Il negazionismo galoppante si può arrestare?
«È un problema. Il negazionismo ha portato al suicidio Primo Levi. Ricordo che era stravolto. Mi chiamò e mi disse: ma ti rendi conto che stanno negando quello che è accaduto con noi ancora vivi? Come se noi sopravvissuti andassimo in giro raccontando bugie. Pochi anni fa io stessa sono stata denunciata da un professore in Abruzzo. Lui era un negazionista e io dissi pubblicamente che chi nega l’Olocausto non può di certo insegnare e così mi ha denunciato. Rendiamoci conto...».
Lei ha paura di morire?
«La morte fa parte della vita. Non ho paura ma non vorrei morire. Però è inevitabile: chi nasce muore».
Perché dopo la guerra riconobbe la sua carceriera e non la denunciò?
«Fu lei che mi mostrò la ciminiera dove usciva il fumo. Ci pensai a lungo e arrivai alla conclusione che non potevo farlo, non dovevo essere io a giudicare. Potevo denunciare un SS che torturava con metodo e crudeltà. Ma una ebrea deportata non si poteva giudicare perché l’essere debole per sopravvivere fa qualsiasi cosa. Quelle persone a mio parere non sono giudicabili».